In tutta franchezza non credo che il cosiddetto distanziamento sociale – sia esso di un metro, un metro e ottanta o altro – possa essere realisticamente rispettato nè fatto rispettare.
In certi luoghi lo sarà forse di più, in altri meno o nulla. Ma alla fine si ridurrà al massimo a una raccomandazione, come quando da bambino la mamma ti diceva di metterti la maglia di lana, e pertanto vastamente evaso.
Sia chiaro, non metto in dubbio la sua efficacia teorica, ma quella pratica. Soprattutto nel medio periodo, tipo la Fase 2, quando le paure un po’ si allentano e nella vita quotidiana le abitudini, le necessità, l’istinto riprendono il sopravvento.
Onestamente confido poco anche nella mascherina, utile o forse indispensabile nei momenti acuti (nella sua invadenza, più come pro memoria sui rischi che come presidio realmente efficace, a dire il vero), ma troppo simile al casco in motorino o all’elmetto nei cantieri, dove anche se è obbligatorio a volte si porta, a volte no, a volte si tiene slacciato, a volte sulla nuca, col risultarto che, quando serve, non protegge come dovrebbe.
Dei guanti non parliamo, ne andrebbero cambiati una ventina al giorno e basta dimenticarne una per vanificare tutto e fare il patatrac.
Quindi mi chiedo in che modo si possa realisticamente vivere la lunga attesa tra ora e la fine o almeno l’alto rischio di ripresa del contagio senza scadere nel paranoico da un lato e nel lassismo dall’altro.