La pioggia di calcinacci che in serrata sequenza sta cadendo in queste settimane dal malfermo palazzo della filiera italiana dell’informazione fa presagire crolli catastrofici. Si salvi chi può, perchè anche per intervenire potrebbe essere tardi.
La pericolosa caduta dei cornicioni è il primo dei segnali che la fatiscenza di un edificio può diventare un grosso problema, se non il preavviso di un crollo imminente. Prima dei calcinacci, è vero, arriva di norma l’apertura di crepe sempre più larghe. Che però si tende – italianamente e anche comprensibilmente, se la valutazione è affidata alla gente comune e non ai tecnici – a sottovalutare. Un po’ perchè di crepe sono piene tutte le case e un po’ perchè si pensa che si tratti solo di banali ammaloramenti dell’intonaco.
Poi però succede come alla Torre di Conti a Roma: alla caduta di qualche pezzo dai piani alti, ossia quando è tardi, si manda in fretta e furia una squadra a fare verifiche e a mettere puntelli ma, di colpo, la casa viene tutta giù. Con ciò che ne consegue.
Ecco: in questi giorni, dalla sommità della casa della filiera italiana dell’informazione, i calcinacci stanno cadendo copiosi. Subito allora si scatena il dibattito, più o meno eterodiretto e più o meno strumentale, su chi sia il colpevole della sinecura o su chi e come dovrebbe intervenire. Si alzano barricate e si indicono scioperi, si invoca l’intervento del Governo per le indispensabili, improrogabili toppe. Ma pochi hanno la percezione vera della realtà: siamo al collasso del sistema, che può avvenire da un momento all’altro.
Il caso Gedi e relative diramazioni, il risiko dei quotidiani (QN, Giornale, etc) con gossip finanziari collegati, il contratto dei giornalisti da rinnovare nell’ormai cronico annaspamento dei sindacati, un mestiere di fatto liberalizzato e una professione alla deriva col timone rotto dell’OdG, le edicole in crisi irreversibile, il crollo anch’esso ormai cronico delle vendite dei giornali, la Fieg che invoca ulteriori sostegni governativi all’editoria (“e potrei continuare per ore“, come direbbe Zia in Sensualità a Corte) sono tutti cornicioni che cadono. In inquietante e serrata sequenza.
E formano un domino che, temo, al momento del definitivo crac nulla riuscirebbe ad arrestare, lasciando solo macerie sulle quali dover poi, faticosamente, costruire un palazzo nuovo. Ma in mancanza di risorse, di ingegneri e di maestranze.
Senza alcuna possibilità di recupero, nè di kintsugi, allora forse è meglio piantare la tenda in giardino o rifugiarsi nella casa di campagna, magari prendendoci anche la residenza professionale ed evitando così ogni rischio. La ristrettezza del campo visivo con cui anche una delle categorie direttamente interessate, cioè la nostra di giornalisti, alza il naso e guarda cadere i calcinacci senza colpo ferire, se non nel ristretto, claustrofobico angolino delle questioni politico-correntizie interne, è la prova lampante che la fine del topo è vicina.
* Il kintsugi (金継ぎ), che letteralmente vuol dire “riparare con l’oro”, è una tradizione giapponese che consiste nel riparare la ceramica rotta utilizzando una colla dorata o dipingendo con vernice dorata i segni della rottura, in modo che la visibilità della frattura ricomposta diventi un pregio e non un difetto.
Photo credits: Harjanto Sumawan
