La tendenza, da parte delle nuove generazioni, al ritorno a tecniche analogiche non solo come strumento di conservazione dei documenti, ma anche di espressione creativa è stato l’oggetto di un’interessante conferenza all’AUF di Firenze.
Sarà capitato anche a voi, diceva la canzone: per praticità avete riversato le foto di famiglia sul computer e, se non proprio buttate via, avete relegato quelle cartacee in un cassetto e poi in cantina dove, nel frattempo, sono muffite, si sono rovinate, perdute o confuse con centinaia di altre. Destinate, alla fine dei giochi, al macero o all’oblio. Vi sarà anche successo, sotto l’ombrellone con un libro in mano, di litigare col vicino immerso in un ebook sulla superiorità della lettura tradizionale rispetto a quella elettronica. O di rimpiangere il “toc” della puntina sul vinile, il profumo della carta, la poesia delle lettere scritte a mano, o l’odore inconfondibile dei documenti d’archivio.
Insomma, nel vostro piccolo vi siete smarriti anche voi in quello che qualcuno chiama il deserto digitale legato alla mancata durevolezza e alla freddezza dei supporti informatici rispetto a quelli fisici. In altre parole, alla digitalizzazione dei documenti e alla perdita, per distruzione o incuria, degli originali. Un fenomeno consolidato che rischia di lasciare un “buco” documentario che in futuro potremmo pagare a carissimo prezzo nel momento in cui, per il rapido evolversi della tecnologia da un lato e il rapido deperimento di supporti digitali erroneamente ritenuti “eterni” dall’altro, non saremo più in grado di “leggerli”.
Alzi la mano del resto chi non si rammarica di non poter recuperare scritti e registrazioni su nastro di trent’anni fa rimasti intrappolati per sempre in pc obsoleti e dischetti divenuti illeggibili.
Mi si dirà che si tratta di perdite trascurabili e, nel breve, è forse vero. Si dirà anche che in realtà la possibilità tecnica di recuperarli esiste. Rispondo che, se esiste, è costosisissima e perciò impraticabile su vasta scala. E che, nel lungo periodo, l’impossibilità di rileggere documenti divenuti nel frattempo potenzialmente storici o fonti di informazioni preziose è comunque una prospettiva culturalmente suicida.
In qualsiasi modo la si pensi, l’idea di un ritorno all’analogico è un movimento di pensiero tutt’altro che passatista e che merita attenzione. Se non come alternativa, come metodologia parallela e integrata alla digitalizzazione. Non soltanto in un’ottica di conservazione delle fonti, tuttavia, ma anche in termini di creazione artistica e di mezzo espressivo.
Se n’è parlato alcune settimane fa alla conferenza The Renaissance of Material Media in Photography, Film, and Beyond organizzata dalla American University of Florence in collaborazione con la Stony Brook University di New York.
“Al centro dell’incontro – si leggeva nel lancio dell’evento – una riflessione culturale di grande attualità: il ritorno all’analogico come scelta consapevole, capace di restituire al gesto creativo la fisicità della materia e una nuova relazione con la memoria e l’identità. Non è una semplice tendenza retrò, ma si tratta di un vero e proprio fenomeno generazionale che riscopre la forza del supporto materico nella fotografia, nel cinema e nelle arti in generale. Pellicole, carte fotografiche e tecniche manuali tornano protagoniste in un dialogo vivo con le tecnologie contemporanee, ponendo domande profonde sul rapporto tra memoria, identità e materia. La giornata di studi approfondirà dunque il ritorno all’utilizzo di tutti quegli strumenti analogici che costruiscono immagini, in un’epoca quella contemporanea, dominata dal digitale e come le due dimensioni possano trovare armonia in una nuova prospettiva creativa. Studiosi, artisti e ricercatori provenienti da diversi paesi discuteranno come le tecniche tradizionali, dalla pellicola cinematografica ai processi fotografici storici, stiano trovando oggi un linguaggio ibrido, in dialogo con le tecnologie contemporanee“.
L’idea della scelta consapevole, del fenomeno generazionale e della possibilità della nascita di un linguaggio ibrido mi sono parsi gli spunti più interessanti per avviare una discussione su una questione delicata e, a mio parere, fortemente sottovalutata.
“Si tratta di un campo ampiamente inesplorato“, dice il prof. Fabio Binarelli dell’American University of Florence, che con la collega Sofia Galli ha coordinato la conferenza. “Non ci risulta che esistano pubblicazioni accademiche sull’argomento di una controtransizione (espressione mia, ndr) dal digitale al materiale, quindi il nostro è forse il primo degli appuntamenti dedicati a questo tema, o almeno quello con l’intervento di un così vasto numero di relatori. E’ stata, anzi, proprio la grande quantità di candidature che abbiamo ricevuto a farci capire quanto il tema sia attuale e quanto ampio sia il gap da colmare nella ricerca in materia“.
Non è semplice in poco spazio sintetizzare i molti temi e i molti punti di vista toccati dalla conferenza, che hanno spaziato dalla lettura del libro tradizionale all’ebook, dalla scrittura a mano a quella a tastiera e alle diverse esperienze emotive, creative ed espressive che, nel bene e nel male, possono derivarne. Si è parlato di editoria digitale e del suo mercato, condizionato da un lato all’esigenza di mantenere la qualità editoriale e dall’altro di accrescere, anzichè limitare, la fruizione letteraria delle opere.
