MEMOIRTAGE*/3. L’autodramma del Teatro Povero di Monticchiello, il borgo della Valdorcia che dal 1967 si mette in scena, s’intitola “La Casa Silente” e parla con levità non banale di gentrificazione, turismo di massa e crisi demografica. Fino al 14 agosto.

 

Siccome la stesura dell’autodramma, che la gente di Monticchiello ogni estate mette in scena dal 1967, comincia tradizionalmente a cavallo dell’anno prima, devo presumere che il tema delle cosiddette “aree interne“, asceso alle cronache politiche a primavera inoltrata e che è uno dei pilastri dell’edizione 2025, debba essere stato il frutto di una sorta di preveggenza dei registi-coordinatori, Gianpiero Giglioni e Manfredi Rutelli. Oppure, più realisticamente, del fatto che da queste parti, come in molte altre della Toscana rurale profonda, l’argomento è ben noto da oltre mezzo secolo. Vissuto sulla propria pelle, stagione dopo stagione. E, in qualche modo, metabolizzato.

Monticchiello è un paesino bellissimo e antico, frazione di Pienza (sì, in Valdorcia), 250 abitanti all’incirca. L’ho visitato per la prima volta a metà degli anni ’80, senza sapere nulla della tradizione teatrale locale che coinvolgeva l’intera comunità in veste di autori-attori e che oggi è diventata un must dell’estate intellettual-campagnola, non solo regionale.

A quei tempi era un borgo polveroso e ancora smarrito, ma ideologicamente granitico, attaccato a un passato mezzadrile e al soffio caldo di nostalgia, rivendicazioni e un po’ di retorica che come un vento soffiava, ancora impetuoso, da un mondo contadino in via di estinzione. Era molto verace, all’epoca, Monticchiello. Nel bene e anche nel male. La popolazione invecchiava, gli antichi e rassicuranti punti di riferimento stavano scomparendo. Dai vicoli promanava un fascino tanto irresistibile quanto melanconicamente decadente. Le architetture affioravano da una patina di pulviscolo che le rendevano ancora leggibili, ma opache, quasi sghembe. La gente era schietta e un po’ disillusa, ma ancora accesa e piena di fede politica.

Il posto ovviamente mi piacque, sebbene non fosse così dissimile da tante altre realtà della collina interna – senese e non – che all’epoca visitavo con curiosità, alla ricerca di ciò che pareva sul punto di essere dimenticato o di perdersi per sempre.

La vicenda dell’autodramma, però, mi colpì particolarmente. Era intrigante l’idea che un paesino riuscisse, già allora con continuità ultraventennale, a rappresentarsi nelle sue inquietudini e, al di là di ogni proclama, nella sua incertezza per il futuro.

Poi, da giornalista, per molto tempo ho recensito gli spettacoli, avendo così l’opportunità di visitare ogni estate Monticchiello e di seguirne passo passo l’evoluzione sociale e, sì, economico-fondiaria.

Mancavo però, salvo visite sporadiche e molto frettolose, da almeno tre lustri. E quindi sono tornato ad accostarmi al Teatro Povero con grande interesse e qualche timore, perchè molta acqua è passata nel frattempo sotto i ponti dell’Orcia: l’acqua della riscoperta, della valorizzazione, del marketing territoriale coi suoi meriti e i suoi guasti, del boom dell’agricoltura di facciata e della crisi di quella reale, dell’Unesco, del turismo prima di elite e poi di massa, della gentrificazione e, infine, di una nuova ondata di interrogativi piovuti sulla testa dei sempre sensibili monticchiellesi. La domanda è: e adesso, che la nostra realtà è, o sta per diventare, una scenografia per ricchi, noi che fine faremo?

E qui arrivano le case silenti. Protagoniste di un mondo distopico ambientato nella Monticchiello del 2059 e abitato solo da anziani soli, dove i bambini sono così rari da essere – per prudenza – sottratti ai genitori e gestiti da una specie di grande fratello dirigista, ossessionato da far rispettare le regole, tecnocratico e politicamente corretto, irridente verso un passato rappresentato proprio dai vecchi che, col loro bagaglio di oggetti e di ricordi, vengono percepiti come un fastidioso ostacolo all’oggi che avanza: un borgo ridotto a luogo di delizia per milionari, ove il chiasso dei bimbi in strada è impossibile per mancanza di materia prima e dove nemmeno quello dei pochi adulti rimasti è tollerato. Tutto quindi è in apparenza intonso e nulla è davvero intonso, tranne appunto le case silenti, quelle lasciate vuote dagli anziani che pian piano vengono a mancare e che, per legge, vanno immediatamente svuotate, rimodernate, tecnologizzate e riconvertite al loro destino di scenografica residenza per stranieri venuti da lontanissimo, inaccessibili alla gente del posto.

Gioca su questo – con vivacità drammatica e anche con una riuscita mobilità sul palco, che dà ritmo ed è capace di andare oltre la recitazione di attori ovviamente non professionisti – l’autodramma dell’estate 2025, con poche concessioni alla politica, che molto incombeva sulle prime edizioni, e un disincanto non privo nè di ironia, nè di pura godibilità, nè di riflessioni. “E’ uno spettacolo basato sui tempi a confronto“, spiegano i registi, “dove non solo si fronteggiano epoche diverse della comunità, ma la storia stessa nel nostro teatro, le cui fasi diventano elementi della vicenda. Fino a saldarsi in una continuità che è il mastice della comunità, teatrale e non, di Monticchiello: al punto che la figura del protagonista de “La Casa Silente”, Tacito, è interpretata da attori che nella vita reale sono davvero nonno e nipote“.

Sono allora molte, alla fine, e non una sola, le case silenti che, come in un film, passano sotto gli occhi dello spettatore. E in particolare del sottoscritto: i poderi abbandonati post mezzadrili, il progressivo spopolamento del borgo, le abitazioni lasciate deserte da eredi espatriati e quelle semivuote di anziani vedovi, quelle trasformate in seconde case e abitate un mese all’anno, quelle destinate a divenire (se non già divenute) resort di lusso o alberghi diffusi e quelle, parimenti silenziose, che a prescindere da chi vi abita fanno da scenografia per i turisti. Col paradosso di un fuori ad uso della massa instagrammante e un dentro privato, arroccato e inaccessibile alla massa stessa. Realtà di cui Monticchiello – punta di un iceberg tanto vasto quanto minaccioso – non è ancora preda, ma il timore della quale serpeggia tra le viuzze e tra le righe di uno spettacolo in cui il segnale d’allarme e la fierezza identitaria stanno in equilibrio su un’incertezza generale e, a tratti, quasi esistenziale.

 

(*) MEMOIRTAGE è la crasi tra memoir e reportage, ossia tra memoria e cronaca. In pratica una rubrica (a cadenza, lo premetto, assai irregolare) in cui mi divertirò, tra fatti, ricordi e suggestioni, a raccontare luoghi e situazioni in cui mi capita di ritrovarmi dopo lungo tempo. Un po’ un esercizio di stile, un po’ racconto e un po’ giornalismo, ma sempre verità. L’unica che, letteratura a parte, dà un senso allo scrivere.