Stando ai resoconti giornalistici, Silvia Romano avrebbe detto agli inquirenti di essersi convertita all’Islam durante il sequestro, acquisendo il nome di Aisha.
In questi termini, sono certamenrte fatti suoi e bisogna solo rallegrarsi della sua liberazione.
Cessano però di essere fatti suoi quanto il caso diventa politico. Quando cioè per liberarla si mobilita l’apparato statale, con tutto ciò che questo comporta (compreso il coinvolgimento dei servizi turchi), e il suo ritorno diventa anche una passerella irta di aggrovigliate implicazioni propagandistiche e di messaggi trasversali.
L’aspetto del riscatto e delle (pur certamente enormi) spese affrontate per ottenere la sua liberazione mi pare secondario.
È ovvio infatti che uno stato faccia di tutto per salvare un proprio cittadino: ne va della fiducia di tutti gli italiani verso lo stato stesso.
È anche ovvio, o almeno comprensibile, che chi governa avochi a sé il merito del successo, anche a prescindere dai meriti reali.
Se si inserisce il tutto, però, in un complesso quadro che coinvolge politica interna, politica e relazioni (anche economico-commerciali) internazionali, geopolitica, questioni sociali, tensioni religiose e rapporti interreligiosi, il ruolo delle onlus e molto altro, la conversione della Romano e il suo rientro in vesti strettamente islamiche, resi visibili in diretta e vastamente diffusi sui media, non restano più irrilevanti fatti personali.
Se è stato pagato un prezzo (e non solo in denaro), è giusto che il paese sappia quale, quanto e perchè: essendo politica la liberazione, politico è anche il terreno all’interno del quale essa si è concretizzata.
A cosa poi la complicata regia di tutto ciò tendesse si vedrà dalle prime interviste rilasciate. E, soprattutto, da chi le otterrà.