Siccome, grazie al cielo, è l’ora di pranzo ed è estate profonda, al supermercato non c’è quasi nessuno e le casse, di solito con code chilometriche, sono pressoché libere e una addirittura deserta. È aperta e presidiata da un cassiere. Siccome non mi pare vero, mi affaccio e educatamente chiedo: “Buongiorno, mi scusi, la cassa è in funzione”?
Il tizio, faccia patibolare, si gira di scatto con espressione risentita e mi fa: “Se mi dai (NB: “dai”) il tempo di contare i soldi…”, e si rimette a fare quello che stava facendo.
La cosa, o meglio il tono mi irrita profondamente e a mia volta rispondo piuttosto alterato: “Ho solo chiesto, eh!”.
Reazioni: nessuna.
Lui con lentezza esasperante continua a contare qualche chilo di spiccioli e io con finta pazienza aspetto incombente che abbia finito. Altri clienti, increduli, si accodano dopo di me. Passano sei o sette minuti. Dopodiché il nostro amico, con flemma da moviola e senza profferire verbo, comincia a passare la mia spesa sotto lo scanner.
Batte il totale, per non sprecare voce preziosa nemmeno mi dice quanto devo e aspetta che veda l’importo da solo sul display, io (muto) porgo il contante, lui lo mette nel cassetto, stampa lo scontrino e addio.
Mi ha fatto tornare in mente un monaco che, tanti anni fa, era stato messo alla cassa dei souvenir di un famoso monastero, cassa che era considerata tra i religiosi posizione “punitiva”. E lui pertanto trattava gli ignari acquirenti con la singolare quanto sorprendente ostilità che non ci si aspetta da chi porta un saio.
Peccato che il cassiere di ieri non fosse un monaco, non portasse il saio e officiasse uno dei massimi templi del consumismo.