La megakermesse organizzata in Toscana da Regione e Slow Food è stata senza dubbio un grande evento che ha “smosso” parecchia gente e parecchi interessi.
Ma resta una domanda: serviva davvero?
Mille “vignerons” venuti da 20 paesi e nove giorni di kermesse spalmata su una sessantina di località toscane, per un totale (se non ho contato male) di 104 appuntamenti, pari a una media di 11 al giorno.
Questi i numeri della manifestazione che si chiude domani a Firenze, tra le molte fanfare che l’avevano inaugurata.
Un enorme sforzo organizzativo e logistico e un inevitabile spezzatino.
Il tutto per, si legge nel comunicato di lancio diffuso dalla Regione, rispondere “all’appello di Slow food insieme ad importanti personalità del mondo della ricerca, della cultura e dell’agricoltura, e discutere di sostenibilità ambientale, sociale ed economica della vitivinicoltura, nonché di qualità della produzione enologica europea”.
Personalmente avevo programmato di partecipare a cinque eventi e sono riuscito ad andare solo a due. Non mi sono preso la briga di calcolare quante migliaia di km o quante ore di lavoro il giornalista o l’addetto ai lavori o l’appassionato avrebbe dovuto sciropparsi per star dietro non dico a tutto, impresa impossibile, ma anche alle (numerose) cose potenzialmente interessanti: immagino però che, a occhio, non sarebbero bastati 3000 km e tre giorni.
Perchè, poi, scrivo “potenzialmente”? Perchè, alla resa dei conti, l’esperienza ha dimostrato che molti degli appuntamenti in programma si sono rivelati autoreferenziali, pleonastici, superflui.
Ora, sorvoliamo (non in quanto l’interrogativo sia inutile, sia chiaro, ma per evitare di impantanarsi in questioni che comunque non potrebbero essere risolte senza dati alla mano) sui costi dell’operazione e sul rapporto costi/benefici delle medesima.
E chiediamoci invece: ma non era meglio un programma più asciutto, selettivo, con incontri capaci di coagulare tanta gente invece dei frequenti quattro gatti sparpagliati qua e là? E ancora: se non esisteva, aldilà dei temi e dei titoli, la materia prima affinchè i dibattiti riuscissero davvero interessanti e concludenti, perchè si è voluto organizzarli?
Io, ad esempio, ho assistito a quello in cui i rappresentanti di quattro “grandi famiglie” del vino toscano (Antinori, Folonari, Frescobaldi, Mazzei) hanno affrontato, coordinati da Paolo Panerai, il tema “Varietali e Terroir, l’annata 2006”. Finchè ho resistito (3/4 della serata), dell’annata 2006 non si è parlato. Si sono fatti in compenso discorsi ed equilibrismi dialettico/propagandistici risentiti mille altre volte e si è assistito alla solita prosopopea con cui i produttori (comprensibilmente, dal loro punto di vista) hanno tentato di accreditare se stessi presso i presenti (che però non erano i soliti americani, ma toscanissimi colleghi o giornalisti) come “laboriosi agricoltori, curvi sui campi”: un’immagine poco realistica e pure un po’ ridicola se accostata a personalità di quel calibro. L’unica cosa interessante e fuori dagli schemi l’ha detta, come gli capita spesso, Filippo Mazzei. Che, rompendo la crosta di conformismo che aleggiava nella sala, ha richiamato a riflettere sull’inutilità del dualismo astratto varietà/terroir e a riportare il dibattito sul terreno più concreto e meno “imbalsamato” (ipse dixit) del rapporto dinamico tra tradizione e innovazione, mediato dalla “conoscenza”.
Altro quesito di ordine generale: per allestire degustazioni pur importanti (che poi però si sono sovrapposte l’una all’altra, costringendo la gente a scegliere) e offrire al pubblico l’opportunità di assaggiare comparativamente grandi vini e grandi annate, c’era bisogno di tutto questo carrozzone?
O ancora: siamo certi che l’idea, essenzialmente pubblicitaria e marketingistica, di visibilità legata a iniziative come questa non sia superata e alla fine serva solo a portare denaro nelle tasche di grafici, creativi, organizzatori di eventi e agenzie di pr?
Per proseguire con le domande, anzi per porre quella davvero fondamentale, perchè è dalla risposta alla medesima che tutto muove: è davvero possibile che i produttori credano all’utilità di una simile manifestazione? Non nell’idea di base, intendo, ma nel modello organizzativo con cui è proposta? Confidano davvero nell’unità dei vignerons come categoria, convocati a mo’ di “stati generali” ma poi usati più che altro come testimonial del “prodotto” vino? O i viticoltori hanno aderito perchè accondiscendenza, o per pigrizia, o per mancanza di volontà di dire di no, o perchè “dovevano”?
Non si tratta di interrogativi retorici, ma di quesiti veri.
Se qualcuno dei soggetti menzionati tentasse di dare una risposta, la cosa sarebbe utile e opportuna.