Un po’ gli incendi russi che hanno ridotto le produzioni, un po’ gli annunci di Putin sul blocco dell’export, un po’ di speculazione, un po’ di ripresa della domanda. Risultato: dagli abissi dei 12 €/q.le il prezzo del frumento è “schizzato” a 21. Una manna? No, una rovina. Un fuoco di paglia (appunto!) insufficiente a garantire reddito e a riassorbire le perdite, che non inverte la tendenza ma potrebbe far dimenticare la crisi strutturale e la necessità di prendere inderogabili provvedimenti per salvare i cerealicoltori (e la collina italiana) dalla rovina.
A volte l’aspirina attenua il dolore ma aggrava il male, perché spinge il malato a rimandare la chiamata del dottore e la prescrizione di cure o medicine vere, quelle amare. Esattamente come un cachet preso lì per lì fa passare il mal di denti ma non guarisce l’ascesso che, dopo qualche tempo, torna a far soffrire. E alla fine va inciso, con successiva dolorosa cavatura del molare.
Tutte metafore che si adattano alla perfezione a descrivere la crisi strutturale che la cerealicoltura di collina, o per meglio dire tutta l’agricoltura italiana di collina, sta attraversando e le circostanze contingenti che, dettate appunto dall’occasionalità, potrebbero ora indurre l’opinione pubblica (agricoltori compresi, categoria non immune dagli abbagli passeggeri) a pensare che la buriana sia passata o il problema sia stato risolto. Quando, invece, non solo il malato rimane grave, anzi gravissimo, ma il temporaneo e apparente attenuarsi dei sintomi rischia addirittura di aggravare la malattia, perché induce a trascurare il male e le cure indispensabili per la sopravvivenza del paziente (sempre, va da sé, che si sia ancora in tempo per salvarlo).
Quello che succede è semplice.
Dopo anni di redditi a picco e di raccolti mediocri, sull’onda della globalizzazione e terminate le forze, tipiche del mondo rurale, che da sempre spingono gli agricoltori a stringere i denti, nell’inverno scorso il “ceto cerealicolo” italiano ha ceduto di colpo ed è montata la rivolta. Una rivolta, va detto, venata spesso di disperazione. La causa è cruda: prezzo del grano duro disceso, sotto l’influenza delle contrattazioni planetarie, a 12 euro al quintale quando, nella media collina italiana, il prezzo minimo per garantire al produttore una qualche remunerazione era calcolato essere intorno ai 30 euro. Prospettive di ripresa a breve o medio termine: nessuna. Indebitamento elevato. Alternative zero. In sostanza: catastrofe sociale, famiglie sul lastrico, decine di migliaia di ettari a rischio di abbandono, paesaggio compreso.
Dapprima i focolai di protesta si sono accesi spontaneamente a livello locale. Poi qualcuno ha pensato di organizzarsi in comitati che, piano piano (mica tanto piano, in verità) si sono ingrossati fino a costituire una massa di pressione non indifferente nei confronti di politici ed amministratori. Da qui uno sciame di provvedimenti più o meno efficaci e spesso molto politicamente interessati (dei quali oltretutto, con scarso senso della vergogna, assessori e associazioni di categoria si stanno contendendo del tutto arbitrariamente la primogenitura) capaci forse di attenuare il malessere, ma certo non di guarire l’emergenza economica.
Su tutto questo è calata poi la “grande estate calda” che ha incendiato la Russia e i paesi limitrofi, insomma il “granaio d’Europa”, riducendo del 30% le prospettive di raccolto e innescando quel mix di speculazione e di rialzi su cui è piombato l’annuncio del presidente Putin di ritiro dall’export del frumento prodotto nel suo paese.
Gli effetti sui prezzi sono stati immediati: alla riapertura delle contrattazioni, il grano duro ha fatto registrare ovunque aumenti consistenti (+16,2% ad esempio sulla piazza di Foggia, con quotazione oltre il 20 euro al quintale). Segue moderata euforia degli agricoltori che, comprensibilmente, vedono nella fortunata coincidenza una boccata di ossigeno per le loro esangui casse.
Ma è, appunto, un fuoco di paglia, un miraggio, una pia illusione. Con la prossima campagna, come i fiumi imbrigliati tendono a tornare nell’alveo naturale, così le quotazioni del grano torneranno sui livelli che il grande calmiere mondiale stabilirà. Livelli tollerabili per il mercato globale, insostenibili però, quanto e più di prima, per la nostra collina, i nostri agricoltori, i nostri costi.
Allentare per un attimo, distratti dalle occasionali vacche “in forma” (dire grasse mi pare inopportuno) di quest’anno, l’attenzione dal problema principale, cioè l’incompatibilità – un’incompatibilità non solo economica ma ormai anche agronomica, sociale, idrogeologica, paesaggistica, perfino culturale – tra la cerealicoltura collinare italiana e il sistema prezzi/produzioni vigente su scala planetaria, significherebbe perdere dodici ulteriori e preziosi mesi durante i quali le poche chances di sopravvivenza di un malato gravissimo potrebbero andare irrimediabilmente perdute. Con le conseguenze immaginabili.
Tenere alta la soglia di quest’attenzione spetta però proprio a chi ha la tendenza (gli agricoltori) e a volte l’interesse (la politica e l’associazionismo di categoria) ad abbassarla. Vediamo dunque che succede. Ricordiamoci però i proverbio: se il medico pietoso fa la piaga puzzolente, quello distratto lo porta alla tomba.