Gli agricoltori non possono essere gravati dell’onere di mantenere (gratis) il paesaggio nel nome del pubblico interesse. Per questo c’è l’esproprio. L’olivicoltura è un’attività agricola: o la si (ri)mette in condizione di produrre reddito, o si consente agli olivicoltori di sostituire le piante con colture più redditizie. Oppure (ma l’aggiunta è mia) gli si dà uno stipendio ad hoc da “giardinieri” conto terzi. Magari comunitari.
Diciamo la verità: lo pensavano in tanti. E alla fine qualcuno è sbottato.
Lo ha fatto con la proprietà di linguaggio e la pacatezza di una persona del suo rango. Ma non ha dato adito a dubbi. Così, giorni fa, in occasione di un convegno sul tema organizzato dall’Accademia a Sassari (qui), il presidente dei Georgofili, Franco Scaramuzzi, ha gettato il sasso nello stagno: l’olivicoltura di oggi è in gran misura priva di reddito e quindi soggetta al rischio di un abbandono che in alcune zone è già in atto. E’ dunque un’attività che agronomicamente non ha più senso, quindi in teoria le piantagioni andrebbero abbattute e sostituite con altre colture. Ma non si può. L’agricoltore è così “obbligato” a coltivare olivi che producono perdite, non guadagni. Il tutto nel nome del paesaggio agrario. Ma la norma che vieta l’espianto non fu pensata per salvare il paesaggio, bensì l’investimento. Se il paesaggio è un bene pubblico, per mantenerlo si usino allora gli strumenti legislativi a ciò destinati, come ad esempio l’esproprio.
Bum! Dopodichè lo stesso Scaramuzzi ribadisce il concetto in un’intervista ancora più esplicita alla rivista online Teatro Naturale (qui).
Che l’illustre cattedratico abbia ragione, è evidente: costringere gli agricoltori a fare i giardinieri “per la gloria” (e pure rimettendoci) non è né serio né democratico. Così come è evidente che il paesaggio agrario per mille motivi rappresenta per la nazione non solo un importante valore culturale ed estetico, come tale meritevole di protezione, ma pure un elemento che genera economia. E che quindi va tutelato anche come tale.
La soluzione, a mio parere, dovrebbe forse stare nel mezzo. Perché se da un lato è impensabile che degli imprenditori provvedano a loro spese, e all’infinito, a mantenere qualcosa che non dà nulla a loro ma solo generico vantaggio agli altri, è altrettanto realisticamente impensabile che decine di migliaia di ettari di oliveto vengano espropriati (e poi mantenuti dallo Stato…) nel nome della pubblica utilità.
Si dovrebbe pertanto mantenere indiscussa la natura agricola dell’olivicoltura (e la necessaria economicità dei criteri della sua gestione imprenditoriale) ma al tempo stesso, preso atto dell’impossibilità della stessa di produrre reddito, introdurre parallelamente forme di specifiche di sostegno alle aziende. Un sostegno (comunitario?) destinato a sostituire proprio il reddito mancante, a fronte dell’obbligo dell’agricoltore di mantenere agronomicamente le colture.
Un principio, voglio dirlo apertamente, che, nell’ottica del pubblico interesse del paesaggio agrario, potrebbe essere esteso al sempre più vasto novero di attività agricole tanto indispensabili per il mantenimento del nostro landscape, quanto realisticamente prive di qualsiasi futuro reddituale.
Un libro dei sogni, politicamente, legislativamente, politicamente irrealizzabile?
Può darsi.
Ma l’esperienza insegna che spesso la realtà è più veloce della fantasia e che fasce sempre più ampie di campagna abbandonata si affacciano già oggi nel paesaggio agrario tanto amato da turisti, creativi e ambientalisti.
Prima che tutto diventi irreversibile, sarebbe il caso di pensarci.