Ha fatto scalpore nell’ambiente giornalistico la notizia del “licenziamento” avvenuto alla vigilia di Natale, dopo vent’anni di onorato servizio, dell’addetta stampa del Maggio Musicale Fiorentino. Si scopre però che non si tratta di un licenziamento, ma della fine di un contratto “a termine”. Rinnovato finora all’infinito, tuttavia, in una spirale in cui vittima e carnefice finiscono per confondersi, spesso nel cono d’ombra del cointeresse.
Ha fatto scalpore nell’ambiente giornalistico toscano – e credo lo farà presto in tutta Italia – il “licenziamento” avvenuto alla vigilia di Natale, dopo vent’anni di onorato servizio, dell’addetta stampa del Maggio Musicale Fiorentino. Un’istituzione, in città. Un punto di riferimento. Un interlocutore e una persona dalle capacità e dall’esperienza indubbie.
Ho usato le virgolette, tuttavia. E per un motivo preciso: non si è trattato infatti di un licenziamento tecnicamente inteso, bensì del mancato rinnovo (dopo vent’anni di rinnovi) di un contratto a termine. In altre parole il datore di lavoro, per motivi suoi (nel merito dei quali volutamente non entro, perché estranei al discorso generale che voglio fare), ha deciso, com’è nel suo diritto, di non riaffidare a quella persona l’incarico che, in pratica, automaticamente le veniva riaffidato senza interruzione da due decenni.
Sia chiaro: umanamente parlando comprendo benissimo il dramma della giornalista messa alla porta e le esprimo la massima solidarietà personale.
Ma la questione merita di essere esaminata più analiticamente e in profondità, perché non è un caso isolato e perché, anzi, è l’esempio di qualcosa che in Italia rappresenta spesso la norma. Direi una normale anomalia.
Innanzitutto, lo ripeto: tecnicamente parlando non si può parlare di licenziamento.
Secondo punto: quanto accaduto è il frutto di due malizie. Squilibrate, diseguali, ma comunque due.
Da un lato quella dell’azienda, che furbescamente ha fatto sì che un rapporto a termine, quindi precario per definizione, diventasse di fatto continuativo. I motivi possono essere tanti: risparmio previdenziale, mancanza di volontà o di possibilità di un’assunzione a tempo determinato, prassi consolidata. Se la cosa è andata avanti tutto questo tempo, la cosa deve senz’altro essere stata conosciuta e condivisa da tutti i vertici succedutisi nell’ente nel lungo arco di tempo. E questa è un’aggravante.
Dall’altro quella della collega, che per scelta, per bisogno, per convenienza, probabilmente per tutte queste cose insieme, ha comunque accettato che per vent’anni quel rapporto diventato nei fatti continuativo andasse avanti sotto le mentite spoglie di un contratto a termine. Può darsi, anzi è probabile, che la giornalista abbia temuto di perdere il lavoro e quindi, anziché piantare una grana sindacale, abbia preferito abbozzare. Peccando però, con questo, da un lato di ingenuità, dall’altro di complicità. Oppure (ovviamente parlo in teoria, perché non conosco i fatti precisi ma voglio usare questo caso per parlare di un malcostume diffuso, tipicamente italiano) ha confidato nel fatto di sapersi custode di ottimi e duraturi santi in paradiso, capaci di procurarle l’automatico rinnovo di un incarico a termine che, in teoria, anno dopo anno sarebbe potuto spettare anche ad altri colleghi, bisognosi quanto lei di lavorare e di sbarcare i lunario ed ora, al pari suo ma per ragioni opposte, legittimamente autorizzati a risentirsi e a indignarsi.
Non voglio star qui a individuare la linea precisa in cui finiscono le colpe dell’uno e cominciano quelle dell’altro, o a stabilire se una parte è più responsabile della seconda. Ma solo far capire che nel sistema italiano esiste una vasta, sottaciuta e condivisa zona d’ombra in cui collusioni, convenienze, silenzi di comodo, interstizi di potere si intrecciano e dove in parecchi, se vogliono, possono sguazzare.
Perché, diciamolo una volta per tutte, un contratto a termine, quello cioè che dà vita alla figura del cosiddetto “precario” (soggetto assolutamente diverso dal freelance, che della precarietà ha fatto una scelta tanto precisa da abbracciare espressamente la libera professione), lo si sceglie solo per due ragioni: o perché è molto ben pagato, e quindi economicamente ti compensa dei rischi legati ai mancati rinnovi e alla ricerca di nuovi impieghi, o perché non si trova niente di meglio e quindi ci si accontenta, sperando in tempi migliori. Insomma: non trovando un’assunzione, il precario si adatta a un lavoro a tempo determinato, ma continua a inseguire il posto fisso.
Finchè le cose stanno così, si può anche tuonare contro il presunto sfruttamento e il comprensibile disagio di chi non riesce ad avere sotto piedi un terreno lavorativamente fermo.
Ma la verità è che quando un contratto a termine diventa cronico e si perpetua per lustri, perfino decenni, con ciò restando sempre in bilico tra il ricatto e la complicità, nonchè illuminato da bagliori collusivi, quasi fosse una versione giuslavoristica della sindrome di Stoccolma (se non dell’aperta intesa tra le parti per aggirare altri obblighi), i dubbi che vengono sono molti.
Dov’era il sindacato, che ora s’indigna, quando i contratti a termine venivano anomalamente rinnovati di anno in anno, con apparente reciproca soddisfazione degli interessati ? Perché l’Fnsi non ha vigilato sul caso, chiedendo al momento opportuno la conversione del rapporto in un’assunzione a tempo indeterminato? E perché non lo ha fatto nemmeno colei è oggi è vittima del sistema, ma fino a ieri ne faceva (in modo più o meno consapevole) evidentemente parte, beneficiando di automatismi di rinnovo estranei per definizione alla nozione di “contratto a termine”? Perché nessun sindacalista della pur sindacalizzatissima istituzione fiorentina ha mai avuto nulla ridire su un caso di così evidente anomalia? Anzi, di anomalia doppia, addirittura: da un lato un rapporto di lavoro dipendente camuffato da contratto a termine e dall’altro un abuso del contratto a termine da parte di un soggetto a svantaggio di tanti altri che, legittimamente, avrebbero potuto aspirare a occupare quel posto, sebbene “precariamente”.
C’è una profonda ipocrisia collettiva in tutto questo. Un’ipocrisia che non aiuterà mai a risolvere dal fondo i problemi dell’occupazione (giornalistica e non), in quanto è basata su una tollerata, perfino incoraggiata e comunque sopportata mancanza di trasparenza. Funzionale, a conti fatti, a un gran numero di persone, forse anche al 50%+1 dei consociati. Una twilight zone tacitamente condivisa e usufruita un po’ da tutti, a turno, lavoratori e datori di lavoro: l’anello di congiunzione tra opportunismo e potere, favoritismi e amicizie, scambio di piaceri e leve occulte della politica.
Ma se questa è l’Italia e se l’Italia siamo noi, almeno non lamentiamocene.