Non è un rimedio, ma un segnale di stop al “todos caballeros“. E soprattutto di inversione di tendenza rispetto al giornalistificio in atto. Il programma dei corsi è rimesso agli ordini regionali e pare non siano previsti test finali. Peccato. Ma sempre meglio che nulla.

Non si può non accogliere con favore l’iniziativa dell’Ordine dei Giornalisti che, recependo finalmente gli appelli giunti da tempo e da più parti (inclusi quella che state leggendo), ha stabilito che, da quest’anno, per ottenere l’iscrizione all’Albo gli aspiranti pubblicisti, oltre a presentare quanto già richiesto (articoli, pubblicati e regolarmente nonché congruamente pagati, che per quantità, qualità e continuità almeno biennale dimostrino un’acquisita capacità professionale), avranno l’obbligo di frequentare anche un corso di formazione.
Un “minicorso” per la precisione. Nulla di trascendentale. Che probabilmente non darà ai futuri colleghi la competenza necessaria per misurarsi con il duro mondo del lavoro giornalistico.
Ma che è importante, anzi importantissimo. Perché è il segnale dell’acquisita consapevolezza (tradotta poi in pratica), da parte dell’Ordine, nella necessità da un lato di porre argine al giornalistificio indotto dall’obsolescenza delle norme vigenti e dall’italica tendenza alla manica larga. E dall’altro di trovare qualche concreto rimedio alle lacune, divenute effettivamente incolmabili, di una normativa in materia che risale al 1963. La cui riforma pare oltretutto impantanata senza speranza, da tempo immemorabile, nelle paludi parlamentari.
Sia chiaro: è una toppa, una pecetta. Eppure è qualcosa. Un segnale, appunto.
Che gli aspiranti colleghi non devono percepire come punitiva o penalizzante. Perché solo Dio sa quanti danni, ai giornalisti della mia generazione e di quella successiva, ha prodotto la disinvolta iniezione nella categoria – ingrossata dal moltiplicarsi dei media: dalle radio alle tv, dalla free press a internet – di una bassa manovalanza, spesso priva della minima idea non solo dei diritti e dei doveri, ma proprio della natura stessa della professione giornalistica. E come tale facile preda di abbagli, connivenze, editori senza scrupoli, basso profilo, ambiguità di ogni tipo.
Un primo, debole ma non inutile passo era già stato fatto da alcuni ordini regionali (quello della Toscana, ad esempio) che, al momento della consegna al candidato del famoso “tesserino” che ne sanciva l’ingresso nell’OdG, avevano previsto anche un colloquio “orientativo”. Quello che qualcuno potrebbe chiamare un predicozzo. Eppure mai una predica era stata più utile per aprire gli occhi a giovani pubblicisti spesso digiuni perfino del perché della loro presenza lì.
L’introduzione dei “corsi su materie inerenti i giornalismi”, da frequentare obbligatoriamente come parte integrante della trafila per l’accesso alla professione è ora un bel progresso. Il contenuto concreto dei corsi è demandato agli ordini regionali. Mentre non si sa ancora (ho appreso tutto da un post sul sito dell’OdG toscano) se la frequenza sia da sola sufficiente o se, come auspicabile, al termine debba essere superato anche qualche esame o esamino. Sarebbe opportuno. Ma conoscendo come vanno le cose dubito che ne sarà previsto uno. E se, del resto, il test dovesse essere la consueta farsa per rendere “todos caballeros”, sarebbe del tutto inutile.
Naturalmente non mi illudo che ciò giovi troppo al futuro di una categoria ormai irreversibilmente zavorrata dall’effetto dei precedenti assalti alla diligenza. Però è meglio di niente. E quando certe parentesi, per quanto lunghe, vengono chiuse, è sempre cosa buona e giusta.