Passando col dito sulla polvere degli archivi e rievocando le ombre dei luoghi e delle persone che li popolano. Quando tutto era più semplice senza essere più facile e quando la capacità di osservare, mettendo in relazione cose e idee, era meno ovvia. Dedicato a quelli che hanno viaggiato con me e mi hanno offerto il privilegio di viaggiare con loro.

Io e padre Johannes, monastero copto di Wadi el Natrun, 2001 (foto Pavan)

Saper viaggiare è un’arte che non si apprende mai fino in fondo. Verità banale, ma granitica. Chi poi doveva farlo per mestiere e quindi, mentre imparava, raccontare pure ciò che vedeva, almeno i fondamentali bisognava che li apprendesse in fretta, sul campo. A proprie spese e a proprio disdoro. Perché di prevenire certi infortuni non c’era – e forse non ce n’è neanche adesso – mai il tempo.
Come un artigiano, una volta investiti dell’ambito ruolo del reportagista (una brusca investitura di fatto, che il direttore ti dava con la sua fiducia e l’incarico un po’ distratto di svolgere una missione difficile) bisognava diventarlo quasi istantaneamente, nel corso di un apprendistato breve e pieno di spigoli, che non ti lasciava respiro e spesso ti poneva nella doppia e scomoda veste di garzone e di principale. Proprio come nelle botteghe di una volta, dove il ragazzino doveva agire e contemporaneamente imparare dallo scorbutico padrone non solo la manualità, ma tutta la complessa sovrastruttura etica e sociale che ad essa sovraintendeva, “rubandogliela”, come si usava dire, con gli occhi. Osservando ogni cosa, senza requie, ansiosamente, con uno sguardo perennemente febbrile, rapace, fremente, affamato di dettagli, nella convinzione che qualsiasi piccolo gesto potesse celare un arcano, o un segreto, o una nozione fondamentale.
Questa lezione ininterrotta e inconsapevole che, in definitiva, consisteva semplicemente nell’abituarsi a tenere sempre alta l’attenzione, era e rimane uno dei capisaldi della professione giornalistica. Forse il principale. Una capacità che però, nel caso del viaggio, occorreva affinare ulteriormente e continuamente, portandola a soglie altissime di sensibilità perché, com’era facile capire dopo un paio di infelici esperienze, quando si è via e lontani e in un mondo diverso dal solito molto di ciò che accade è sfuggente, enigmatico, istantaneo, irripetibile. Se non colto al volo, svanisce. O rischia di restare incompreso. E se te lo raccontano non ha poi, per te (e neppure per gli altri che leggono), lo stesso sapore.
Ecco, se c’è una cosa che davvero mi manca dei tanti anni passati a girare in lungo e in largo i luoghi più disparati e le situazioni più strane è proprio quella particolare, singolarissima adrenalina che ti pervade e ti sospinge, come una droga, ad aguzzare la vista, a non mollare mai l’osso, a fare una cosa e a pensarne un’altra, a procedere per cerchi concentrici e linee parallele, perchè sai che tutto è lì, subito, in quel momento, e tu non puoi lasciarti sfuggire neanche un dettaglio. Scene filmate a memoria, immagini rimaste fotografate nella retina, odori erranti, rumori, bisbigli, associazioni istantanee di idee, sguardi, reminiscenze, sensazioni tattili, brividi e sudori. Mille particolari destinati a formare un affresco di cui ancora non conosci i contorni ma che sono da trattenere in testa senza perderne neanche uno, per avere la freddezza, dopo, di riversarli sulla carta. Su fogliacci stropicciati, però, mica sul moleskine consunto e “vissuto” dell’immaginario collettivo. Microscopiche note a margine, ma più importanti di pagine intere, come scolii su un codice, impressioni successive, ripensamenti, rettifiche e sottolineature vergate tra i sobbalzi di un’auto, piene di sgorbi, scritte a caso nell’oscurità. E il magnifico miraggio di trovare un momento, un pomeriggio, una parentesi di estasi dove poter rileggere e riorganizzare tutto, finalmente appoggiando a qualcosa la schiena dolente, senza sabbia tra le pagine, o macchie di pioggia che hanno fatto sgorare l’inchiostro e bucare la carta sotto la penna a sfera.
E che dire delle abitudini simili a scaramanzie, tanto tenaci da indurti a indossare per anni gli stessi abiti, le stesse camicie, gli stessi pantaloni, per il solo fatto che, conoscendo alla perfezione pregi e difetti di ogni capo, sai anche con esattezza fino a che punto poterti fidare di loro? Dettagli che valgono mille volte di più dell’innovazione, della tecnica, delle taglie che cambiano.
Ogni viaggio era un pacco. Un imballo di carte, vestiti, oggetti, accessori destinato ad essere prima meticolosamente formato, poi dispiegato e analizzato, poi rimpacchettato con cura e riposto a futura memoria. Una memoria spesso puramente virtuale, quasi che la cura di quel packaging di buste e elastici fosse destinato, come in fondo al cuore sapevamo, non tanto a garantire l’accuratezza della conservazione ma la tenuta stagna del ricordo e di ciò che quel viaggio aveva rappresentato.
Ora che il mio archivio è pieno di decine e decine di faldoni polverosi, ognuno dei quali è rimasto impregnato dell’odore dei luoghi da cui proviene, mi verrebbe voglia di completarlo con le immagini impresse nei miei ricordi e le istantanee delle risate dei compagni di viaggio che hanno condiviso con me miglia e miglia, code, attese, giorni, notti. Potrei dare anche un titolo a tutto questo: “Rileggersi”. Anzi, “Rileggiamoci”. Appunto dopo appunto, codicillo dopo codicillo.
Per vedere di nascosto l’effetto che fa.