Oggi, ad Agri&Tour (qui) di Arezzo, ho assistito a un dibattito tra giornalisti dopo tre giorni di “prova” in alcune strutture toscane. L’impressione? Nel settore siamo comunicativamente ancora quasi all’anno zero. Altro che “riclassificazione”.

C’era quello che criticava la mancanza della tv in camera, l’altro l’assenza del phon in bagno. Uno si aspettava massaie rubizze che imbandivano il desco, un altro voleva pranzare con piatti a base di soli prodotti aziendali. C’è chi ha apprezzato il nobile scopo dell’investimento (riportare vita e lavoro in una campagna abbandonata) e chi lo ha criticato, sentendo puzza di speculazione. Qualcuno si è lamentato del troppo rumore, qualcun altro si è trovato spiazzato dal troppo silenzio. Tizio si è annoiato per le troppe informazioni, Caio ne voleva di più, ma diverse.
E il bello è che, dal loro punto di vista, avevano tutti ragione.
Assistere ai dibattiti tra i colleghi è un privilegio di cui nessun giornalista degno di questo nome dovrebbe privarsi. Perchè niente meglio delle impressioni di chi, per mestiere, deve raccontare qualcosa, è in grado di illuminarti sull’idea corrente che, di quella cosa, c’è in giro.
Per questo non mi sono fatto pregare due volte quando mi hanno invitato, in qualità di presidente dell’Aset (l’Associazione della stampa enogastroagroalimentare toscana, info qui), ad assistere al confronto tra il gruppo di giornalisti italiani e stranieri partecipanti al press tour organizzato in questi giorni dalla manifestazione aretina e Carlo Hausmann, direttore generale di Azienda Romana Mercati e consulente dell’Osservatorio Nazionale dell’Agriturismo presso il MIPAAF.
Un confronto franco e informale durante il quale i reporter, senza peli sulla lingua, hanno riferito le loro impressioni dopo aver testato personalmente (mangiandoci, dormendoci, visitandole) alcune aziende agrituristiche, di diverso taglio e stile, sparse sul territorio regionale.
Ne è emerso, come prevedevo, un quadro frammentario, anzi estremamente confuso, in cui le diverse (e tutte legittime) personali “visioni” e aspettative dell’ospitalità rurale si sono scontrate tra loro in un vivace contraddittorio, delineando un orizzonte a suo modo chiaro: cioè che nessuno, nemmeno i giornalisti, ha un’idea lineare di ciò che, oggi, è realmente l’agriturismo in Italia.
E ciò non per difetto di conoscenza o limitatezza di vedute dei colleghi ma perchè – e in ciò sta la grandezza e al tempo stesso il grande limite del movimento, a più o meno di un quarto di secolo dalla sua nascita – l’offerta agrituristica italiana resta un enorme ombrello all’interno del quale può trovare casa tutto e il contrario di tutto. Compresi, da parte della domanda, una serie di stereotipi e di luoghi comuni ormai consolidatisi nell’immaginario collettivo e capaci di condizionare in modo irreversibile le aspettative di un pubblico sempre più vasto e, perciò, anche sempre meno scafato.
Da parte degli operatori e delle loro organizzazioni si fa insomma ancora molta fatica a comunicare all’esterno la natura composita di un’offerta che, in estrema sintesi, è la semplice sommatoria di migliaia di differenti singolarità. Cioè di individualità, di storie personali, di avventure, di storie, di luoghi differenti. Nessuno omologabile all’altro. Nel bene e nel male, naturalmente.
Nessuna tipologia formale – questo sarebbe forse il concetto principale da far capire invece al mercato e anche alla stampa – sarà dunque mai in grado di ingabbiare e di riassumere in un modello unico questo mondo così frastagliato, all’interno del quale trovano legittimamente cittadinanza (anche alla luce di una legislazione tanto dispersiva quanto contraddittoria) sia famiglie diretto coltivatrici che casati aristocratici, piccole strutture e grandi fattorie, alloggi spartani e accomodation superlusso, viticoltori biologici e cerealicoltori intensivi, agricoltori per tradizione e nuclei di neorurali, squali della finanza e sognatori puri, indebitati cronici e capitalisti solidissimi. Tra difformità enormi (qui solo pernotto, lì solo ristorazione), coinvolgimenti fin troppo emotivi, distacchi troppo professionali e pure, in certi casi, irritanti indifferenze verso un cliente che, di solito, all’accoglienza agrituristica richiede innanzitutto calore umano.
Eppure sta anche in questo, cioè nell’unicità di ogni singola situazione rispetto alle altre, la forza intrinseca dell’agriturismo italiano. Un fenomeno che difficilmente può dunque essere inquadrato formalmente attraverso i comuni parametri tipologici e qualitativi tipici dell’industria turistico-alberghiera. Ciò che ancora tende a fare della permanenza in campagna più il luogo di un soggiorno esperienziale che non di una vacanza tradizionale.
Ma se davvero qui risiede il connotato principale dell prodotto, preoccupa un po’ l’annuncio, fatto in chiusura dell’incontro proprio da Carlo Hausmann, dell’imminente lancio (si parla del mese prossimo) di un sistema ufficiale di classificazione dell’offerta agrituristica nazionale “che individua 68 parametri di qualità, con un sito in tutte le lingue, comprese quelle orientali“: non c’è il rischio che la multiforme, anarchica, ma viva offerta della campagna ne esca ingessata e senz’anima? Non sarebbe meglio lasciare al mercato, anzichè agli standard precostituiti (un metodo dal quale da anni anche gli hotel cercano di prendere le distanze), il compito di fare selezione e di creare le sue nicchie, le sue categorie qualitative?
Niente da eccepire all’idea di varare (è stato annunciato anche questo) un marchio agrituristico nazionale, di potenziare il sistema di certificazione delle aziende, di creare un repertorio nazionale del settore capace di sovrapporre a ogni scheda aziendale il relativo fascicolo (cioè la dichiarazione della quantità e della qualità delle attività agricole effettivamente svolte, con tanto di foto aerea) e di accrescere il peso, anche in termini di rating, dell’interconnessione tra le aziende stesse e il territorio. Bene insomma procedere a un’operazione “serietà e trasparenza” che non può che giovare alle imprese. Ma pretendere di creare un abito nelle misure del quale tutte siano costrette a infilarsi mi pare uno snaturamento di quell’unicità che è l’anima più vera di un alloggio agrituristico.