VIAGGI&PERSONAGGI, di Federico Formignani

 

Oggi il nostro Fedeform – giornalista, viaggiatore, scrittore, dialettologo di lungo corso – inizia la sua collaborazione ad AF. Con un tema d’un’attualità quasi disarmante, ma osservato da prospettiva originalissima.

 

“Figli del Sahel”
Fra le notizie che giornalmente bombardano le nostre vite (il sistema del ‘repetita iuvant’ è pratica ricorrente dei vari media) c’è il consueto ‘bollettino’ sul numero di migranti in arrivo: annegati e salvati a ridosso della costa libica; più contenuta la ‘contabilità’ degli interventi in mare aperto o in prossimità di Lampedusa. È quest’isola, un po’ meno arida delle terre del Sahel dalle quali provengono, la meta tanto sognata dai ragazzi del Mali, Burkina Faso, Niger, Gambia, Senegal. Non è che la gente sia tutta insensibile; ma la ripetitività di queste cronache del dolore e dell’orrore, finisce per anestetizzare le coscienze di molti; si ascolta, si vede, si legge e si torna velocemente alle abituali occupazioni e ai cazzeggiamenti col telefonino. Loro, i neri che arrivano dal centro Africa, per l’innocenza di una vita semplice purtroppo sconvolta e per ragioni anagrafiche, non conoscono ciò che aveva scritto il padre della Negritude, Leopold Sédàr Senghor: “La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere“. Per qualcuno, l’esistenza virerà positivamente secondo la previsione di Senghor; per altri non ci sarà domani né futuro.
Senghor, presidente del Senegal e uomo di grande cultura e sensibilità, è morto prima di assistere allo sconvolgimento epocale che avrebbe coinvolto la gente del centro Africa, con milioni di esseri umani disperati, pronti a correre ogni tipo di rischio pur di raggiungere l’Europa. Lui, che mi aveva raccontato le grandezze della sua terra evocando i fasti dell’Impero Songhai, con i versi di una sua poesia: ‘Signore iddio, perdona l’Europa bianca! Signore, perdona coloro che hanno mutato gli Askia in partigiani, i miei principi in marescialli, la gente della mia casa in servi e i miei contadini in salariati; perché è bene che tu perdoni coloro che hanno dato la caccia ai miei ragazzi come a elefanti selvatici’. Misfatti di secoli addietro, perpetuati con quelli moderni che, almeno, gli sono stati risparmiati.
Non a caso Senghor aveva rimarcato, senza astio e rancore, che gli europei che erano passati per il Continente nero volevano solo insegnare, con presunzione e arroganza, senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di capire e di imparare. Con voce commossa, aveva chiuso l’incontro ricordando che troppi fratelli neri, per lunghi anni, erano stati ‘lontani da casa, lontani da Dio’.
È troppo paventare che l’antica invocazione del poeta cada nuovamente nel vuoto?