NORTH EAST INDIA CHRONICLE/3. Padiglione enorme, tensostruttura da grande evento, otto soli stand e location ai confini della realtà. Era l’ITM di Tawang per il turismo nel Nord Est indiano. Una delusione? Al contrario: una miniera di informazioni. E d’altro.

Credo di averlo già scritto, ma è bene ripeterlo: ci ho messo non poco a capire dove fosse Tawang e, soprattutto, cosa fosse venuto in mente al ministero del turismo di un paese enorme e ricchissimo di luoghi affascinanti come l’India di organizzare una fiera internazionale in un posto così fuori dal mondo. Logisticamente quasi ingestibile: trasporti ai limiti del praticabile, fuori mano, senza strutture ricettive, al centro di una delicata contesa diplomatica, punto nevralgico di insediamenti militari e di interessi economico/naturalistici planetari.
La stessa domanda, ma al cubo, me la sono fatta una volta arrivato là (nei modi già descritti qui). Dicendomi: è come se avessero organizzato la finale di Champions in un’isoletta importuosa del Pacifico.
Contorno imponente: una serie di sfarzosi (e bellissimi, in effetti) spettacoli quotidiani di danze tradizionali sotto un tendone da matrimoni-monstre, con corpi di ballo venuti da tutta la regione e composti da centinaia di persone trasportate tra enormi problemi burocratici (per entrare in Arunachal Pradesh, anche per i cittadini indiani, ci vogliono permessi speciali rilasciati a Dehli), catering a pranzo e a cena con cicliche variazioni cromatiche degli addobbi, decine di giornalisti e delegati internazionali venuti davvero da tutto il pianeta, divisi a piccoli gruppi e sempre accompagnati da accoratissime guide e autisti, apparato di burocrati locali di ogni grado mobilitati in massa, alberghi (costruiti e in costruzione), ostelli e alloggi praticamente requisiti per ospitare i visitatori. Buona volontà, ingenuità, approssimazione, fatale fibrillazione e ansia a quintali per i poveri organizzatori e le ancora più spremute maestranze.
Il tutto immerso in una sorta di liquido amniotico buddista, ai margini di un ex villaggio in rapida trasmutazione urbana, a cavalcioni tra zen e fatalismo, smania e indifferenza, atarassia e amichevole compatimento. E un colossale monastero, quasi galleggiante sulle nuvole, a contemplare dall’alto tutto quel vano brulichio.
Ciò per fare da contorno – pareva – a un semplice corridoio con gli otto stand, quattro per lato, dei sette stati del “Nord Est indiano” (due dei padroni di casa dell’Arunachal Pradesh e poi Sikkim, Assam, Manipur, Meghalaya, Mizoram, Nagaland, Tripura e West Bengal), affollati dei soliti cacciatori di gadget, ma stavolta con gli occhi a mandorla, e tracimanti di cara vecchia carta sotto forma di brochure, depliant, cartine. Come in una bella fiera di provincia.
Il programma era invece altisonante: solenne cerimonia inaugurale, festoni, sciarpe di benvenuto al collo di tutti gli intervenuti, regali, discorsi delle autorità e immancabile conferenza stampa.
Ed ecco qui, dove mi sentivo più forte, la prima sorpresa.
Mi aspettavo qualche sparuto cronista filogovernativo pronto a registrare, muto, il solito discorso precotto sui destini luminosi e progressivi del turismo in quell’area, a dir poco marginale, del subcontinente.
Smentita clamorosa: mi sono invece trovato circondato da qualche decina di agguerriti colleghi locali che ha bombardato di domande a volte scomode e spesso pungenti, toccando argomenti delicati e niente affatto attinenti allo specifico della fiera, i vari amministratori e personalità presenti. I quali, con mia ulteriore sorpresa, non si sono affatto sottratti agli interrogativi ma hanno risposto con una disponibilità e un’ampiezza infinitamente maggiore al previsto.
La stampa indiana e la stampa italiana sono quindi andate al riposo sull’1-0 per i padroni di casa.
Ma la goleada arriva nella ripresa, quando il programma della giornata prevede che i sette stati si “presentino” ai media e agli operatori.
Un appuntamento che tutti gli occidentali bramavano segretamente di disertare, temendo noie mortali. E al quale però, complice la pioggia e la mancanza di alternative, si sono in qualche modo trovati a presenziare.
E’ stata la Caporetto dei nostri sussiegosi pregiudizi.
Nessuno dei rappresentanti ufficiali ha negato non solo i punti deboli, ma nemmeno le eventuali tensioni etniche, i problemi derivanti dalla guerriglia e dai movimenti separatisti, i contrasti religiosi, le carenze infrastrutturali, le lacune del proprio paese. Sorridenti se c’era da sorridere, seri e secchi se c’era da essere seri. Cosa ancora più incredibile, invece di contendersi il microfono e la platea, i vari responsabili si sono talvolta perfino aiutati, puntualizzando e rintuzzando per conto dei colleghi le domande sempre più incalzanti di una stampa che, ancora più che al mattino, fa il suo mestiere.
E, dopo, si presta anche a spiegarci dettagli, spigolature, punti di vista, i retroscena per noi più ostici da comprendere.
Ne vengono fuori approfondimenti imprevisti, appuntamenti per interviste non programmate, vere e proprie piste giornalistiche da seguire fuori programma.
A tavola becco un pezzo grosso del governo e gli faccio un paio di domande a bruciapelo. Lui non fa una piega: interrompe il pranzo, mi invita a sedermi e per un’ora mi risponde a tutto. Provo a provocarlo, lui non svicola. Nè dà la sensazione di mentire. “Se vuoi fare il mio nome, fallo. Altrimenti non importa“, dice.
Ripenso allora alla penosa reticenza di tanti nostri conferenzieri e alla speculare, distratta accondiscendenza di tanti (non tutti, va da sè) giornalisti italiani dimostrate in mille occasioni pubbliche. Mi guardo stranito con i colleghi occidentali, anche loro abbastanza increduli.
Faccio le mie verifiche, maliziosamente indago, metto a confronto le notizie, scavo, domando a mia volta. Smentite, rettifiche? Poche.
Alla fine, devo concludere che sulla realtà di quei luoghi ho imparato e mi sono venute più idee in due ore di conferenza full immersion che girando nei paraggi sotto scorta per due giorni, o leggendomi decine di ritagli, pagine web, blog, articoli sedicentemente “bene informati”.
Così, stringendo tra le mani il fido block notes, esco nell’aria fresca di un piovigginoso tramonto himalayano, mi lascio alle spalle quell’improbabile compound fieristico e vado a farmi un bagno di umiltà professionale sorseggiandomi una Kingfisher in santa pace, nel mio alberghetto ancora senza finestre.
Peccato, rifletto, che il terzo tempo con i colleghi locali non sia previsto dal cerimoniale.

PS/Rettifica: mi accorgo di aver parlato male solo dei costumi della stampa italiana, ma assicuro i colleghi che i giornalisti stranieri presenti erano basiti quanto me e forse di più.