Gli scricchiolii del sistema sono sempre più sinistri, ma invece di mettere robusti puntelli o avviare profondi consolidamenti, l’establishment non sembra capace di fare altro che convegni. E noi guardiamo con preoccupazione al soffitto che oscilla.

Tu chiamali, se vuoi, campanelli d’allarme. O scosse di preavviso. O scricchiolii sinistri.
Io credo invece che siano crepe larghe, ben visibili a chiunque. E profonde fino alle fondamenta, quelle che ormai da ogni lato si sono aperte – annunciando crolli imminenti – sulle mura dell’eburnea torre del giornalismo. Il giornalismo-istituzione, intendo, quello della professione, dell’ordine, del sindacato e della galassia di enti che a questo moloch fanno capo.
Prima i malumori striscianti e traversali ignorati per molti, troppi per anni. Poi gli sfoghi di esasperazione dei singoli, sciaguratamente confusi per sintomo di crisi personali. Quindi le ripetute e sempre minimizzate manifestazioni di aperto dissenso (chi si ricorda i “fantasmi dell’informazione”?), quasi sempre scambiate per giochi di correnti o per gli strepiti di gruppuscoli isterici. Dopo, ecco i primi sondaggi. Lo stupito spavento, la palese sensazione di incredulità dei vertici verso una base che tanto base più non è. E tantomeno si sente fondamento (la Carta di Firenze delle scorse settimane e i correlati rumori, che hanno dato voce a quel 60% di giornalisti italiani che il sistema ha finora bellamente ignorato, ne sono stati non la spia, ma la significativa conseguenza). Infine l’assalto dei “redattori di fatto” all’immancabile quacquaracqua che i soliti noti hanno messo in piedi giorni fa nel sancta santorum del pennismo nazionale: il Circolo della Stampa di Milano, simbolo del giornalismo e sua massima sede liturgica, dove tristemente si celebrava la solita pantomima pseudosindacale su “Precari, Autonomi, Freelance: nuove frontiere della professione giornalistica”.
Il confronto tra conferenzianti e contestatori si è risolto in toni “aspri ma civili”, si legge da qualche parte. Come se questo fosse consolante. E non fosse invece molto sconsolante il dialogo tra sordi di cui quest’ennesimo episodio è testimonianza. Di qua una categoria eterogenea, spargola, operaizzata nei fatti ma professionalizzata nella forma, cioè i giornalisti senza contratto (dalla loro colpevoli, oltre che di poco realismo, anche di scarsa coscienza e di modesta preparazione sulle fondamenta teoriche del loro mestiere). Di là un sindacato inadeguato, smarrito, incapace, cronicamente distratto, alle prese con un fenomeno imprevisto sebbene ampiamente prevedibile. Nel mezzo un ordine che è al tempo stesso vittima e carnefice di sé medesimo, primo stampatore di valuta nella repubblica dell’inflazione giornalistica.
E adesso, che si fa? La maggioranza della plebe sta scappando di mano. Questo, forse, qualche capataz l’ha afferrato. Ma tardi. E senza avere i mezzi per fermare l’emorragia, né l’autorità per chiudere il rubinetto. L’allagamento è diventato un’alluvione e potrebbe trasformarsi in uno tsunami. Nel frattempo la professione ha perso la bussola: i precari reclamano assunzioni impossibili, i liberi professionisti attaccano la penna al chiodo o scendono nell’arena diabolica della doppia morale (leggi commistione tra pubblicità e informazione). Il popolo dei sottopagati, invece di dedicarsi profittevolmente ad altro, alimenta la propria condizione accettando lavori che costano soldi, anziché dare un reddito. Qualche frescone troppo imbevuto di veterosindacalismo e di ideologia vorrebbe perfino che nelle redazioni gli stagisti fossero pagati, trasformando i medesimi nei primi concorrenti dei giornalisti disoccupati, pur senza essere tali.
Insomma, è un caos.
E il problema è che, quando la trave cede, il tetto crolla. Tutto. Senza star troppo a distinguere buoni da cattivi, bravi da incapaci, contrattualizzati e non contrattualizzati. Bisognerebbe fare come i topi: scappare prima che la nave affondi. E invece qualcuno, anzi parecchi, continuano a ballare come se niente fosse, Titanic style. Insomma, finiremo come i topi o come le ballerine. E non è una bella prospettiva.