Nel nuovo libro di Luca Pollini non solo la storia del movimento hippie, ma il pendolo tra il versante americano, quello europeo e l’appendice italiana della stagione dei figli dei fiori. Tra testimonanze dirette e riferimenti generazionali” imprescindibili”.

Nel 1927 mia nonna aveva 25 anni, viveva a San Francisco e faceva la modella.Venne in Italia a metter su famiglia e non ritornò più laggiù fino al 1969.
Trovò ovviamente un’altra America. Altra parecchio. L’America dei figli dei fiori, quelli che i nostri capelloni gli facevano un baffo. Ci rimase un anno e, rientrata a casa, non faceva altro che parlare degli hippies. Diceva hìpis, anzi, con corretta pronuncia. Ma negli occhi le si leggeva soprattutto un permanente sconcerto misto a ribrezzo.
A me, di andare nella mean old Frisco, toccò undici anni dopo, nel 1981. Anche fatte le debite proporzioni, di acqua sotto i ponti ne era passata molta.
Ovviamente resi pellegrinaggio ad Haight-Hashbury, il quartiere freak o ciò che ne restava. Ne restava poco, in effetti, e a me parve pochissimo. Anche se magari proprio pochissimo non era. Mi ricordo parecchi reduci fricchettoni, alcuni negozi di dischi nei quali non ho ancora smesso di rimpiangere ciò che ci lasciai e la vetrina del City Lights, istoriata con i disegni e i manifesti di Rick Griffin, il grafico delle copertine dei Grateful Dead.
L’era del peace & love era finita da un pezzo, ma nella remota Italia il suo mito era ben lungi da chiudersi e noi, nati troppo tardi per vederla dal di dentro ma presto abbastanza da sentirne ancora il profumo, ci dovevamo accontentare della musica che ne aveva segnato l’epopea.
Oggi, a quasi sessant’anni dai primi vagiti del movimento, la cosa è abbondantemente entrata nella storia e, con l’ovvia eccezione di chi c’era, ha smesso di emanare il suo fascino romantico, lasciando casomai spazio alla nostalgia, all’analisi sociologica e al deja vu.
Il merito di Luca Pollini, giornalista e scrittore milanese dichiaratamente appassionato (e conoscitore) della materia, è di non far nulla per nascondere la sua visione molto “italiana” del fenomeno, del quale si occupa ricorrentemente. Una visione, cioè, filtrata attraverso i punti di vista, le peculiarità, perfino le distorsioni dettate da una prospettiva tanto periferica quanto imbevuta dell’inevitabile condizionamento culturale che ne deriva.
E da questo dipende il pregio del suo nuovo libro, “Amore e rivolta a tempo di rock – Storia degli hippie, il movimento che ha fatto sognare il mondo” (No Reply, 2014, 248 pagine, 12 euro). Che non è solo una pur ben scritta narrazione della nascita, dell’ascesa e del declino del flower power – altrimenti il volume giungerebbe “esimo” di una lunghissima serie – ma un compendio che mette in correlazione, spiega, riallaccia e riannoda i fili tra il versante americano di quella stagione e il suo, per certi aspetti assai più complesso, corrispondente europeo e italiano: il versante cioè meno idealistico e più ideologico per non dire, come nel caso nostrano, eminentemente politico.
Ne consegue un interessante intrecciarsi di ponti cronologici, geografici e sociali, notizie e personaggi, che fanno il pendolo tra Woodstock e Parco Lambro, tra Leary e Valcarenghi, in un gioco di aneddoti, testimonianze e corrispondenze (o non corrispondenze) capace di dare al tutto la pacatezza di una lettura storicistica, senza però privarlo di una piacevole partecipazione emotiva.
Perchè non c’è dubbio che, in fondo in fondo, il cuore di Pollini sta dalla parte degli hippie. Con tutto il trasporto di chi quel mondo lo ha, per ragioni anagrafiche, appena sfiorato. Ma nella memoria ne mantiene ben intatto il profumo, le visioni stralunate dell’adolescenza e pure l’alone ondivago di certe nebbioline.