In molte occasioni, informali e non, mi sono accorto che i giovani colleghi, o aspiranti tali, accolgono con parecchia insofferenza il tendenziale (e ahinoi realistico) pessimismo con cui noi più vecchi descriviamo le prospettive del nostro mestiere. E arrivano a sospettare che si tratti di una sorta di voluto disincentivo, dettato ora dal cinismo “senile” verso un lavoro che essi vedono brillante, entusiasmante e vivace e ora, perfino, dalla volontà di mantenere il più chiuso possibile il portone della “casta”. Capisco il loro disagio e la loro malcelata rabbia. Ma devono convincersi che il giornalismo di oggi è davvero ben diverso da quello che sembra e che, anche rispetto a solo vent’anni fa, tutto è cambiato. In peggio.

La prima volta che mi sono reso conto di quanto profondo fosse il solco che divideva la mia generazione professionale da quella dei “nuovi” colleghi o aspiranti tali è stata nel 2007, quando fui chiamato a insegnare libera professione giornalistica all’Istituto di Formazione Walter Tobagi di Milano. Ovvero la cosiddetta “scuola” dell’OdG della Lombardia, un’aula prestigiosa alla quale accedono alcuni dei più brillanti neolaureati italiani e aspiranti giornalisti.
Dopo due ore passate a spiegare, tra l’altro, quanto il freelance dovesse essere capace di dividere equamente i suoi talenti tra la scrittura di articoli e la necessità di “venderli” a un editore per guadagnarsi da vivere e poter così effettivamente continuare a esercitare il proprio mestiere (“di cui la redditualità – dicevo – è non solo requisito indispensabile, ma anche l’unica garanzia di effettiva indipendenza”), un’allieva non seppe trattenersi e saltò su, irata: “Non esiste però che anche lei venga qui a dirci, come gli altri suoi colleghi, che oggi fare il giornalista è quasi impossibile. Tutti ci scoraggiano, ci disincentivano. Ora si scopre che perfino fare il libero professionista è una corsa a ostacoli. Vi siete messi d’accordo?”.
L’accusa insomma, nemmeno tanto implicita, era non soltanto di avere un atteggiamento preconcettualmente e dannosamente pessimistico, e quindi scoraggiante per i giovani, ma quasi di curare un interesse di casta ad alzare la soglia di accesso, per impedire al massimo numero possibile di persone l’ingresso nell’empireo (o ciò che a loro sembrava) dell’informazione.
Superato un attimo di sconcerto, capii che qualcosa non quadrava. Allora, invece di invitare loro a fare delle domande a me, cominciai a farne io a loro. E compresi l’arcano. Un arcano semplice, banale, chiarissimo: le loro aspettative e la loro visione del mestiere erano non solo radicalmente diverse dalle mie, ma opposte. Muovevano cioè da un presupposto, da una vision antitetica.
Nella sostanza avevo ragione io, è ovvio, essendo appunto io “dentro” e loro ancora “fuori” dall’ambiente professionale. E senza dubbio avranno in seguito avuto modo di capire quanto fondato fosse il mio disincanto e quanto illusoria la loro idea. Da allora, tuttavia, ho preso l’abitudine di sondare con più frequenza e più attenzione le aspettative dei colleghi più giovani, proprio per avere un quadro sempre aggiornato su cosa giornalisticamente “is going on” tra le nuove generazioni.
Tutto questo mi è tornato in mente giorni fa, quando conversavo di queste cose con una giornalista quasi trentenne, oltretutto figlia di giornalista (quindi teoricamente né del tutto ingenua e né del tutto estranea a certi ambienti), ma entrata da poco nel “giro”: “Sentendoti parlare mi rendo conto – diceva – di quanto sia diversa l’impostazione che abbiamo noi rispetto a quella che avete avuto voi della vecchia scuola (sic e sigh, ndr). La nostra redazione sta sempre a cavallo tra giornalismo e marketing, tra articoli e redazionali. Adattiamo gli uni agli altri e viceversa. Ogni tanto viene su il direttore, ci dà le dritte da seguire e noi le eseguiamo”. Una redazione la sua, ha specificato, frutto della “collaborazione” tra un grande editore e un grande gruppo telefonico, dove informazione e pubblicità si devono sovrapporre, spesso confondendosi.
Nulla di nuovo né di scandaloso, sia chiaro. Il “marchetting” è sempre esistito e sempre esisterà nel mondo dell’informazione. Quello che sconcerta è però da un lato il fatto che ciò rappresenti per le nuove generazioni la assoluta “normalità”, o almeno una delle normalità professionali ammissibili. E che dall’altro, di conseguenza, questa realtà professionale sia tranquillamente confessabile, esplicitabile. Insomma sia percepita come la norma.
Le cose vanno anche peggio se poi si scandagliano le opinioni dei lettori. Si scopre così che pure per loro è “normale” o addirittura ovvio che il giornalista “faccia pubblicità”, che tenga (dietro mercede) i piedi in due staffe, scriva articoli e proponga inserzioni a pagamento. Pensano questo perchè in molti casi sono convinti che la reclame sia informazione, che non esista cioè un confine tra i due generi e che quindi sia naturale che il giornalista oggi scriva la verità e domani il falso, se commercialmente giustificabile.
Scioccante (almeno per me), ma è così. Bisogna rassegnarsi? Avessi ottant’anni e avessi fatto il giornalista nell’età del piombo e delle macchine da scrivere con rullo e nastro, forse sì. Ma avendone cinquanta e facendo il giornalista tuttora, credo che fare spallucce non sia giusto. Fare questo mestiere correttamente, senza essere né verginelle né puttane, si può eccome. Molti dei “vecchi” (o come tali percepiti dai più giovani) in attività ne sono la prova vivente. Certo, occorre avere le basi. Ma le basi chi te le può dare se non la scuola un po’ burbera che si frequenta quotidianamente stando gomito a gomito con i colleghi più esperti? A allora, cari neogiornalisti o aspiranti tali, dico: fidatevi, fate tesoro delle esperienze buone e cattive che l’esempio altrui vi suggerisce. Imparate a distinguere tra chi è un bravo professionista a cui ispirarsi e chi non lo è. Il criterio? Cinismo e disincanto. Diffidate degli ottimisti: o non sanno ciò che dicono o vi vogliono ingannare.