di URANO CUPISTI
Il nostro torna a rispolverare il moleskine del viaggio di trent’anni fa e della traversata in pullmino del nulla patagonico: “Quando accade di incrociarsi ci si ferma, si chiede se c’è bisogno di qualcosa, a volte si scambiano le ruote di scorta (non importa le dimensioni), brevi racconti, una stretta di mano e vamos!”.

 

Rio Gallegos è la capitale della provincia di Santa Cruz, la più meridionale dell’Argentina (esclusa l’isola della Terra del Fuoco). Quando l’ho visitata contava pressappoco 90.000 abitanti.
In quel “tiepido” giorno estivo avevo un appuntamento, a Rio Gallegos. Con Ignacio, un discendente dei chilotes, cileni dell’isola di Chiloè, arrivati sulla sponda atlantica a quella pacifica all’inizio del ‘900 per sopperire alla poca mano d’opera nella filiera della lana, dall’allevamento degli ovini alla tosatura. Dovevo raggiungere con lui El Calafate, visitare il Lago Argentino e il Perito Moreno, attraversando quella che poi si rivelò la “vera Patagonia”, quella di Chatwin.
Ignacio mi era stato raccomandato da un occasionale compagno di viaggio in aereo, da Ushuaia a Rio Gallegos, come uno dei migliori conoscitori delle “piste sterrate patagoniche”.
Non fu difficile contattarlo. Lo trovai fuori dall’aeroporto ad attendermi con tanto di cartello “Mr. Urano”. Che fosse un parente dell’occasionale compagno di viaggio? Chissà, mai saputo.
Con il suo sgangherato Nissan bianco a 6 posti, mi fece fare un breve giro in centro raccontandomi che “era un secolo che non accadeva niente d’importante da queste parti. Da quella rapina del 1905 ad opera di due banditi nordamericani”.
La carretera verso ovest s’immerse da subito in uno scenario incredibile; lo scenario del nulla. Scrivo sul fidato Moleskine: “Viaggio tra l’incredibile e il fantastico. Stiamo percorrendo la carretera verso ovest, con i suoi rettilinei a perdita d’occhio, attraversando la Patagonia Australe. La vegetazione è di quella “a falasco”, spazzata e strapazzata dal vento. Incrociare un’auto diventa un rito. Quando accade, ci si ferma, si chiede se c’è bisogno di qualcosa, a volte si scambiano le ruote di scorta (non importa le dimensioni), brevi racconti di vita, una stretta di mano e…vamos”.
Sono i marroni intensi con sfumature ocra e striature rossastre a dominare lo scenario insieme al contrasto color celeste pastello del cielo dove nuvole stratificate qua e là con le loro proiezioni a terra macchiano di nero la Patagonia. Improvvisamente la strada inizia a salire. Ci fermiamo su una sommità. “Señor,questa è la vera Patagonia con il suo viento impetuoso constante” .
Riprendiamo il viaggio. Fatti un centinaio di chilometri sempre nel nulla, improvvisamente, dopo una curva, lo scenario cambiò. Di fronte, in lontananza, le cime innevate delle Ande con il famoso Cerro Chaltén, lo scosceso picco meglio conosciuto con il nome Fitz Roy (3.405 mt). La Patagonia Andina con la sua zona glaciale, con le lussurreggianti e umide foreste che dividono le ventose pianure dalle cime perennemente imbiancate è là, in fondo, ad attendermi.
El Calafate, piccola oasi sulle rive del Lago Argentino, mi accoglie nel pomeriggio assolato. Il vento la rende ancor più malinconica, tetra agitando gli alberi e alzando la polvere nelle strade, a quell’ora, deserte.
I ronzii dei trasformatori elettrici ai lati delle strade, i cavi che li collegano a centrali elettriche poste tra le basse case. Quell’anarchia regolata dal bisogno di soddisfare chi vive a queste latitudini. Così si presentò El Calafate, cittadina sperduta nella Patagonia andina. “Tutto cambierà presto señor. Il prossimo anno aprirà l’Aeroporto Internazionale e…
Sono le 6 del mattino. Il sole sorge ad est e mi trovo nel minibus sgangherato accanto ad Ignacio. Direzione ovest. Sarà il giorno del “derruimble”, del tuono.
Ad un tratto Ignacio frena. “Señor, señor, un condor“. Anzi tre. Ci sediamo sul ciglio della strada sterrata dove noi, il vento e i tre condor siamo gli attori di questo improvvisato spettacolo. Ignacio inizia a spiegarmi a quale famiglia appartengono, le loro dimensioni nel volteggiare, di come sappiano pazientemente attendere il momento della predazione. Si sono accorti di noi. Meglio ripartire.
Lungo la strada ci fermiamo di fronte ad una stele rievocativa di fatti di sangue accaduti da queste parti all’inizio del ‘900. Il nome Estancia Anita rievoca eccidi per alcuni, liberazione per altri. Crisi della produzione della lana, scioperi degli chilotes, l’infiltrazione di profughi russi che tentarono di organizzarli al grido di “la proprietà è un furto” e la repressione con fucilazioni di massa. Una bandiera lacerata dal vento e una scritta quasi illeggibile: “Se la storia viene scritta da coloro che vincono vuol dire che vi è un’altra storia”. Anche questo è Patagonia.
Finalmente entriamo nel Parco Naturale dei Ghiacciai, con la consapevolezza che il momento più eccitante si stava avvicinando. Di fronte a noi l’ovest del Lago Argentino con le sue acque blu lattiginose. A proteggerlo i picchi granitici delle Ande con le lingue di ghiaccio che scendono fino ad immergersi nelle acque del lago. Saliamo su di un catamarano dirigendosi verso il fronte del ghiacciaio. Zigzaghiamo tra iceberg di diverse grandezze per raggiungere lui, non il più grande come dimensioni ma il più famoso, spettacolare: il Perito Moreno.
Ci accoglie con un tuono, il derrumble appunto, il fragore del ghiaccio che si stacca dal fronte, il suo sbucciamento. Ci avviciniamo. Lo ammiriamo in ogni sua piega, anfratto. I colori vanno da un bianco acceso alle varie tonalità del celeste e azzurro. Ed ecco un altro boato, il suo urlo e lo sciogliersi lentamente avvolto dai vapori.
Inizio il ritorno a El Calafate accompagnato da un folto gruppo di poiane che volano nella nostra stessa direzione. Il sole è appena tramontato dietro la cordigliera. Il Lago Argentino ha cambiato di colore. Il bianco argenteo accecante è scomparso. Le anatre selvagge che ricoprono parte delle sue sponde si preparano piano piano alla notte spegnendo i loro schiamazzi e con esse tutta la Patagonia Andina.
(2.continua)