Entro il 16/2 i giornalisti votano per l’ente di previdenza, tra pietose risse correntizie e il baratro finanziario a un passo. Ma si parla solo dei 12mila “garantiti”: sugli altri 40mila autonomi silenzio di tomba (“…siamo solo voto e cassa“). Ecco lo sprofondo in sei amare pillole esemplificative.

 

Tra costernazione e feroce compiacimento assisto alla rissa da portinaie in corso sulle imminenti elezioni dell’Inpgi, in scadenza il 16/2.

E a proposito delle quali, senza ritegno alcuno, le vomiterecce, onnipresenti “correnti” e i rispettivi alfieri, sottoalfieri, quasi alfieri, servi sciocchi e babbei puri si affrontano a colpi di insulti, vere menzogne, mezze verità, affabulazioni, rinfacciamenti, vendette, rancori personali, antipatie reciproche, rivalità, ambizioni occulte, cointeressi inconfessabili, incoerenze invereconde e vari poltronismi. I social ne sono un megafono cosmico.

La costernazione riguarda sia la figura di alcuni stimabili colleghi coinvolti nell’agone dialettico sia altri, altrettanto stimabili, che pur non coinvolti nella rissa vi partecipano indirettamente, in quanto candidati.

Il feroce compiacimento riguarda invece tutto il resto, perchè quanto sta accadendo è speculare della più generale rovina della categoria, giunta quasi al punto di non ritorno.

Cioè quello in cui la situazione è così drammatica, ma talmente drammatica, da rendere tutto inutile: sia la spiegazione delle cause, sia l’individuazione dei responsabili, sia le elezioni stesse, visto che il destino è segnato.

La tragicomica situazione dell’ente di previdenza dei giornalisti è scolpita in un fatto: si discetta senza fine sulle sorti della cosiddetta Inpgi 1, cioè quella che riunisce i 12.000 giornalisti dipendenti, in profondo ed irreversibile rosso, mentre si tace sulle sorti (e aggiungo la funzione, di cui parlerò oltre) dell’Inpgi 2, la cosiddetta “gestione separata”, che invece è in assoluto attivo e riunisce i 40.000 giornalisti “autonomi” che in modo determinante contribuiscono a tenere in piedi il sistema dell’informazione in Italia. E che dovrebbe includere anche i restanti 53.000 mancanti all’appello, dando per scontato che il totale degli iscritti all’Ordine dei Giornalisti sia davvero, come risulta, di 105.000 unità.

La causa di questa latitanza contributiva del 50% è semplice e grottesca al tempo stesso: mancanza di reddito e quindi di capacità contributiva. In altre parole, la metà dei giornalisti italiani è iscritta a un albo professionale ma scrive per hobby o nemmeno scrive e pertanto non guadagna una lira, ha giusto l’agognato “tesserino” (a voi la risposta su come l’abbia ottenuto); poco meno dell’altra metà annaspa nella precarietà e spesso non arriva a fine mese, ma dev’essere per forza iscritta a un ente di previdenza che comunque non darà loro una lira di pensione, al massimo un obolo da qualche decina di euro mensili, a causa di una contribuzione sì obbligatoria ma resa ridicola da aliquote basse e guadagni inesistenti; poco più del restante decimo della categoria, infine, quello dei “contrattualizzati“, confida previdenzialmente in un ente che – amministrato dalle correnti dei giornalisti stessi, quindi da OdG e Fnsi, detta Fnsieg – sta a tal punto palla al centro con la morte che, per ammissione degli stessi colleghi, “salvarla spetta alla politica“: ad oggi, infatti, per un giornalista che “dà” all’Inpgi che ne sono tre che vanno in pensione e quindi “prendono”. Ciò al netto delle malversazioni amministrative che le parti si contestano.

Ciononostante, come sul ponte del Titanic, si continua il balletto della rissa tra bande per accaparrarsi lo strapuntino.

Quanto alla politica, l’unica risposta che la stessa ha finora saputo dare è stata la proposta, spernacchiata da tutte le parti in causa, compresi i presunti beneficiari, e comunque non risolutiva, di inglobare ex lege nell’ente di previdenza dei giornalisti la loro controparte concettuale, cioè i “comunicatori”. Roba da pazzi. Come dire di far entrare nell’associazione calciatori tanto gli arbitri quanto i tifosi. Fate voi se sia il frutto di imbecillità pura o del malizioso disegno di annacquare l’informazione coi produttori di reclame e di propaganda.

In queste settimane, privatamente, sperando di capire meglio ciò che da anni mi pareva ineluttabile, ho scambiato idee sull’argomento con svariati colleghi, sia candidati che non, della buona fede dei quali non dubito e verso i quali nutro una sincera stima professionale, quindi mi fido di quanto mi hanno detto.

Le loro testimonianze, purtroppo, hanno acuito il già abissale pessimismo a cui l’esperienza personale mi aveva condotto in oltre trent’anni da libero professionista.

Ve ne risparmio il racconto e mi limito ad alcune pillole dimostrative.

Pillola 1. A fine dicembre apprendo da Facebook che i contributi obbligatori Inpgi2 a carico dei liberi professionisti passano dal 12% al 14%. Sì, da FB. Dall’ente, invece, silenzio assoluto.

Pillola 2. Tempo fa una brava collega, Camilla Ghedini, ha scritto alla presidente uscente dell’Inpgi, Marina Macelloni, una fin troppo garbata lettera aperta (qui) per protestare contro detto inutile aumento, che non migliora nulla delle prospettive pensionistiche degli iscritti e ha tutta l’aria di mirare all’impiguamento della gestione separata in veste di auspicato salvagente finanziario dell’Inpgi1. Ecco alcuni passi: “Valiamo come cassa e come voto, nulla di più…Le chiediamo in quali vantaggi si tradurrà l’aumento perché noi, da nessuna parte, abbiamo trovato riscontro. Allo stato attuale, con l’aumento per molti di noi sarebbe meglio rinunciare all’Inpgi 2 e pagare una pensione privata. Non possiamo, purtroppo…Come partita Iva constatiamo l’assenza totale di diritti e tutele. Eppure anche noi ci ammaliamo, andiamo in ospedale, facciamo cure, abbiamo genitori che invecchiano e richiedono assistenza, abbiamo infortuni, abbiamo committenti che interrompono contratti. Nulla per noi esiste“. Ma loro litigano fra correnti.

Pillola 3. Mi viene fatto presente, come se fosse una conquista, che un rappresentante dell’Inpgi (quale Inpgi?) fa parte della famigerata Commissione per l’equo compenso (sì, l’annosa buffonata messa su da Fnsieg, Fieg e governo per tutelare interessi che non sono certamente i nostri). Ora, ci credete che in mezza giornata non c’è stato verso di sapere chi sia questo fantomatico rappresentante e che nemmeno i siti di Odg, Fnsi, Inpgi e Dipartimento per l’informazione e l’editoria presso la Presidenza del consiglio dei ministri ne riportano il nome? Quando si dice la trasparenza.

Pillola 4. Nel 2016 oltre l’83% degli iscritti Inpgi 2 nel 2016 non ha votato. Se ne saranno chiesti il motivo?

Pillola 5. L’Inpgi 2 nasce e morirà zoppo. Fu creato quando, ai primi anni ’90 (io c’ero), i governi s’accorsero che esisteva una enorme massa di lavoratori non inquadrati in categorie organizzate, che oggi si direbbero autonomi ma che allora erano considerati solo “anomali” rispetto alla regola del posto fisso, cioè figure mezzingole e dopolavoristiche, prive di qualunque forma previdenziale. Si tentò allora di darne loro una parvenza (parvenza nel senso che era chiaro fin da allora che i versamenti sarebbero stati minimi e in ogni caso insufficienti a garantire una pensione nel senso serio del termine): prima includendoli nell’Inps (noi giornalisti freelance fummo messi in un calderone che includeva amministratori di condominio, membri dei cda delle società, etc, pensa te!), poi creando l’Inpgi2. All’inizio fu una conquista, perchè consisteva in un riconoscimento, ci dava uno status, attestava formalmente l’esistenza della tipologia dei giornalisti lavoratori autonomi. Fu un risultato più politico-professionale che economico-previdenziale, insomma. Si capì subito però che, per i motivi detti sopra, i liberi professionisti veri, strutturati, non avrebbero mai preso una vera pensione (nemmeno chi aveva fatturati importanti). Poi, grazie alla trentennale sinecura di Fnsi e OdG, tutto, anzichè evolversi a fronte dell’esplodere, peraltro evidentissimo, del lavoro giornalistico autonomo, è rimasto come nel 1996. Ed eccoci qui.

Pillola 6. Giorni fa ho preso il coraggio a due mani e ho chiamato l’Inpgi per avere un ragguaglio sulla mia situazione, temendo, come poi è stato, di sentirmi ripetere ciò che mi dissero già due decenni fa: dopo quasi quarant’anni di (non minimi, eh! Anzi, spesso corposi contributi obbligatori) mi spetterà una pensione di 1.500 euro. Al mese? Macchè, all’anno! Ovvero 125 (uno-due-cinque) euro al mese.

A questo punto vi chiederete se e chi voterò.

Certo che voterò.

Soprattutto perchè probabilmente sarà l’ultima volta che ci sarà da votare.