Non è facile fuggire da se stessi, perchè il passato e il presente si fondono. Una sindrome che, se espressa attraverso la fantasia visionaria dei comics, diventa ancora più inquietante.

Si dice che il passeggio e la conversazione siano due dei principali strumenti del bon vivre.
Se è così, io e Serena Guidobaldi ne abbiamo praticato parecchio, visto che un paio di anni fa ci siamo fatti a piedi, insieme, oltre 120 km. Giorni di cammino, durante i quali si dicono tante cose.
Una di queste mi era però rimasta particolarmente impressa. Era il “fumetto” che lei mi diceva che aveva scritto, o che stava scrivendo, o che stava pubblicando. Non avevo capito bene. Ma avevo capito che doveva trattarsi di qualcosa di serio.
Non sono un grande praticante di fumetti, lo ammetto.
Come tutti, da bambino e da ragazzo ne ho letti tanti. Ma per evasione, per intrattenimento.
E pur riconoscendone l’indubbio potenziale espressivo, ho sempre fatto fatica a considerarli come una qualche forma d’arte vera e propria. Esitavo a concepire i disegni come “tavole”, con l’aulicità che quest’espressione implica.
Mi sono dunque accostato con doppia curiosità ad “Autopsia psicologica” (2012, Nuvoloso Edizioni, 14 euro), un bel volume con copertina di cartone e pagine di carta pesante, perfino impegnativa direi, scritto da Serena Guidobaldi e illustrato, in forma di fumetti, da Andrea Domestici. La prima era dettata dai racconti della mia amica e dalla chiara inquietudine personale che traspariva dai suoi racconti pedestri. La seconda derivava dal desiderio di vedere tradotta in pratica la teoria della graphic novel, perchè così l’opera si presenta: un racconto letterario espresso attraverso il disegno e le parole che lo corredano.
Contrariamente alle aspettative, non è stata una lettura facile, sebbene il fumetto non sia lunghissimo (a proposito, perchè le pagine non sono numerate? Mi è venuto il sospetto che sia fatto apposta, per acuire l’immersione del lettore nella vicenda, privandolo dei punti di riferimento). E mi sono subito sorpreso della complessità dei piani narrativi, della tortuosità dei giochi psicologici, della felicità dell’intuizione di affidare a rappresentazioni favolesche e quasi caricaturali di animali tutto il ventaglio dei sentimenti umani, nobili e meno nobili, che la storia porta in superficie e mette in piazza.
A cavalcioni tra l’autobiografico e lo psicologico, il libro analizza infatti la tormentata conversazione tra due parti diverse dello stesso cervello, due coscienze, due volontà. Dove l’una desidera parossisticamente fuggire dalla propria identità, aspirando all'”evaporare” della cultura nipponica, e dove l’altra, essendo parte dell’una, forzatamente e continuamente la riporta a sè, come due polsi serrati dalle stesse manette che, nonostante ogni sforzo, non potranno mai allontanarsi più di tanto tra loro, nè tantomeno divaricarsi.
Nel mezzo c’è un labirinto grafico, quasi barocco, di una fantasia visionaria, a tratti psichedelica, che ti risucchia nelle pagine e a ogni passaggio dello sguardo ti rivela nuovi dettagli, con un gusto calligrafico che non risulta mai stucchevole, ma anzi sempre funzionale alla storia nonostante la chiara ricerca estetica e una mano indubbiamente felice.
Alla fine te ne resti un po’ turbato, inquieto, con la voglia di tornare indietro a riguardare certe scene e certi tagli di respiro cinematografico. Compulsi, confronti, ricostruisci.
E di colpo capisci anche perchè, in effetti, quelli non sono disegni, ma “tavole“.