Tutti a casa e impegni azzerati: le agende sono diventate flat. Come quando avevamo vent’anni, o come quando le compilavano i nonni, col loro diverso stile di vita. O come se fossimo il “Ragazzo” di Hornby.

 

Diari scolastici a parte, la mia prima vera agenda l’ho avuta nel 1979.

Nella seconda metà degli anni ’70, dopo la crisi economica e l’austerity, anche in Italia avevano cominciato a diffondersi i promotori finanziari e quegli investimenti che ai comuni padri di famiglia di allora parevano cose marziane: bot, cct, fondi di investimento.

Al pari delle banche, per imbonirsi la clientela anche se società di gestione del risparmio privato cominciarono a produrre gadget tipo penne, calendari, fermacarte e, appunto, agende.

Il mio babbo ne ricevette addirittura due ed una la passò a me.

Era alta, spessa, più grande di un quaderno, con una copertina rigida foderata di falso raso color carta zucchero e una grafica inequivocabilmente seventies.

L’idea di possedere un’agenda mi eccitava moltissimo, vagheggiavo di poterla finalmente riempire dei miei mille impegni, annotare scadenze e incontri, organizzare la mia vita.

Ma andavo ancora al liceo. Per i compiti usavo il diario e per il resto non avevo assolutamente nulla da fare che non fosse domestico o la quotidiana visita al negozio di dischi, peraltro sempre lo stesso e sempre in compagnia dello stesso amico, facendo sempre lo stesso percorso.

Insomma cose da segnare in agenda, zero. Avevo la metà dei suoi anni, ma parevoil clone dello sfaccendato Will Freeman di “About a boy” di Nick Hornby.

Per darmi un tono tenevo comunque l’agenda sulla scrivania e ogni rara volta che l’aprivo, con mio grande imbarazzo, scricchiolava come i libri intonsi. L’anno passò, la misi in un cassetto. Riaperta qualche lustro dopo, mi mostrò nell’arco dei dodici mesi una manciata di fondamentali scadenze tipo “alle 17 vedere Gianni” o “partenza per il mare”. Ce l’ho ancora.

Poi molto tempo è passato e, come tutti, ho cominciato ad usare agende fattesi via via sempre più fitte, piene, indispensabili, poi addirittura elettroniche e, lo ammetto (ma è una resa recentissima) perfino sincronizzate col pc. Ogni giorno decine di posti dove andare, persone da vedere, situazioni da visitare, spostamenti da fare, aggiornamenti quotidiani.

Poi è venuta l’autoquarantena da virus e, in una settimana, mesi di programmazione sono andati in fumo come un domino, con gli appuntamenti cancellati uno dietro l’altro.

Stamattina la apro e c’è una calma piatta. Perfino i pagamenti, gli odiati balzelli, si sono diradati causa auspicata sospensione e vertiginoso calo del fatturato.

La mia agenda elettronica del 2020 pare tornata quella desolata e un po’ ingiallita del ’79.

Allora sono andato a rovistare tra i cimeli di famiglia (in questo senso stare a casa aiuta) a ripescare l’agenda di mio nonno, persona di spicco vissuta tra il 1887 e il 1962. E l’agendina di mia nonna, signora bene sua quasi coetanea.

Ebbene, ne è venuto fuori un quadro curioso.

Tutti e due avevano le agende piene di cose, ma nel 90% dei casi, da fare a casa: vedere Tizio, pagare Caio, controllare la tal cosa, contabilizzare la talaltra, istruire il tappezziere, sovraintendere a certi lavori, regolare le pendenze con tale, esaminare il tal documento. Uscite extradomestiche pochissime, per rari affari e qualche frequentazione mondana. Spostamenti minimi e sempre lunghi. Nessun andrivieni. Era un mondo casalingo, dove si faceva una cosa per volta. Gli affari giravano attorno alla casa e alle persone, non viceversa

Esattamente come siamo tornati a fare ora per via del virus. Consiglio quindi di ricominciare ad annotare le voci “riordinare la biblioteca“, “svuotare la cantina”, “spostare i vasi da fiori“.

Ho l’impressione che durerà parecchio. E che forse non sarà un male.