Anna Tozzi Di Marco è un’antropologa per per dieci anni, da sola, ha vissuto nella “Città dei Morti”, lo sconfinato quartiere/cimitero cairota che, tra le tombe e nelle tombe, ospita un milione di persone. Quest’avventura straordinaria è raccontata nel libro “Il Giardino di Allah” (Ananke). E in un altro in uscita a marzo.

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La prima volta che la visitai, se non ricordo male, fu una decina di anni fa, mentre ero sulle tracce del Cairo di Naguib Mahfouz. Ma il merito della scoperta non fu mio. Fu della ricercatrice che l’istituto italiano di cultura della capitale egiziana ci aveva presentato per accompagnarci e approfondire certe tematiche culturali della metropoli. Si chiamava Anna Tozzi Di Marco. Ci disse che era napoletana, che faceva l’antropologa e che viveva nella “Città dei Morti”.

Tanto per capirci, la Città dei Morti è l’antico cimitero cittadino, il luogo dove dal Medioevo in poi, dai sultani Mamelucchi alla povera gente, centinaia di migliaia, forse milioni di persone hanno trovato sepoltura: ora in tombe miserrime e ora in cenotafi monumentali, ora in torreggianti moschee considerate capolavori di architettura islamica e ora nei labirinti di catacombe oscure.
La straordinarietà della Città dei Morti, tuttavia, non sta solo nel suo patrimonio di memoria, di morte e di morti, bensì in quello di vivi. Perchè non è un semplice, seppur sconfinato camposanto. E’ un quartiere a tutti gli effetti con strade, servizi, vita sociale, dove gli abitanti nascono, crescono, vivono e muoiono dentro e fra le tombe: custodi dei sepolcri, ma anche studenti, impiegati, commercianti. C’è di tutto. Mercati, bancarelle, locali, scuole, piazze. Un condensato di umanità vera, con i suoi problemi reali, le tensioni, sordida e solare al tempo stesso, polverosa come certi vicoli invasi di capre e scintillante come le cupole delle moschee.

Sia chiaro. Al Cairo nessuna guida ne parla, nessun ufficio turistico dà informazioni. A chi domanda, vengono date risposte evasive. Per gli egiziani, o meglio per il governo egiziano e per i suoi interessi molto tourism oriented, la Città dei Morti non esiste. Non per vergogna, forse, ma perchè essa incarna l’esatto contrario – disordine, gioventù, nuovi fermenti, miseria, squallore, vitalità – di ciò che la propaganda e l’immaginario collettivo, alimentato da decenni di campagne pubblicitarie, ha costruito intorno al monolite cairota, una lucrosa e rassicurante routine fatta di piramidi, Sfinge, Museo Egizio, Cittadella, Khan el Khalili e Nilo a ciclo continuo. Alle autorità locali pare impossibile che uno straniero possa volerla visitare. E sarà perfino difficile convincere il tassista a portarvici: una destinazione simile è fuori dagli itinerari programmati, dai percorsi standard. Una meta non impossibile, ma semplicemente inconcepibile. Molti autisti nemmeno sanno bene come arrivarci. La riprova ce la offrì la stessa Anna Tozzi che, per darci appuntamento a casa sua, nel cuore del cimitero, ci consigliò di indicare al conducente del taxi la moschea effigiata sulle banconote da una lira: solo in quel modo egli avrebbe capito che volevamo andare proprio lì.

Ecco, dicevamo di Anna Tozzi, che nella Città dei Morti ha affrontato un’eccezionale esperienza di vita fatta di iniziali difficoltà, inevitabili diffidenze, perplessità, dubbi, anche conflitti e trasformatasi poi a poco a poco in familiarità, comprensione, integrazione profonda con quell’enorme cuneo lungo una dozzina di chilometri che si insinua tra la Cairo islamica e i nuovi quartieri moderni, con il suo profilo basso, le sue distanze interminabili, qua i suoi conglomerati di tombe e là i vasti spazi di campagna urbana usati per il pascolo e per la discarica, erosa a nord dai pericolosi progetti cittadini di neourbanizzazione (con interi settori distrutti per far posto a viali alberati e a parcheggi per i pullman turistici) e dominata dall’arida e pietrosa montagna di Moqattam. Quella in cui – per riannodare il fil rouge della mia prima visita – Mahfouz ambienta un romanzo aspro come Il ladro e i cani.

Insomma una città indolente, più che dolente. Pigra ma febbrile. Molto mediorientale ed eppure modernissima per la sua miscela esplosiva di uomini, culture, stili di vita, arte, povertà, architetture. Dove nessun Caronte e nessuna porta preannunciano l’ingresso. Non un inferno. Casomai un giardino. Il “Giardino di Allah”. Lo stesso che con malcelato amore Anna Tozzi racconta nel suo libro, in attesa di farci leggere il prossimo.

Anna Tozzi Di Marco nella Città dei Morti

Anna Tozzi Di Marco nella Città dei Morti