L’ex Celeste Impero, 7° produttore al mondo e mercato ambito, sta varando un proprio sistema di rating basato su criteri “cinesi” e di taglio apertamente sovranista. Le implicazioni? Preoccupanti.

 

Mi pare passata quasi sotto silenzio (mi ha anticipato qualche giorno fa l’amico Carlo Macchi), o comunque con una rilevanza enormemente inferiore a quella che nell’ambiente avrebbe meritato, una notizia che mi ha invece fatto sobbalzare sulla sedia: la Cina sta mettendo a punto (nel senso che esiste già e ora si sta passando all’applicazione concreta) un suo “sistema ufficiale” (conoscendo il paese, da intendersi “statale“) di valutazione del vino. Un punteggio in centesimi dato in base a dieci parametri, variabili fino a venti. Con “simulazioni” fatte su campioni europei che non fanno affatto ben sperare circa la corrispondenza delle valutazioni occidentali con quelle orientali. Traduzione: un vino ottimo da noi potrebbe risultare mediocre da loro, con ciò che ne consegue in termini di appeal commerciale.

Lo scopo  – riporto da un comunicato stampa che a sua volta si richiama al sito del CWE, il Chinese Wine Evaluator – è stabilire un sistema di punteggio che si adatti al consumatore cinese. Il sistema rende più facili le sue scelte, gli consente di gratificare meglio le sue preferenze e quindi dà più valore commerciale al vino. Il CWE è l’istituzione che ha il mandato di stabilire un sistema di punteggio del vino con caratteristiche cinesi e ha come obiettivo la costruzione di una piattaforma di comunicazione per i professionisti internazionali del vino, per aiutare le cantine e gli importatori di vino a capire meglio il consumatore cinese e il mercato in Cina”.

A me pare una bomba, per comprendere il potenziale della quale basta provare a leggere tra le righe: Pechino  – questo il senso del messaggio – sta riscrivendo in chiave cinese, e ovviamente in senso coerente agli “interessi” nazionali, gli standard di qualità per la valutazione del vino. Criteri che poi troveranno applicazione nel commercio, nell’importazione e nella produzione.

In altre parole quel paese, a torto o a ragione considerato la Mecca prossima o forse già attuale (nonostante i copiosi rinculi subiti dagli occidentali su quel fronte nell’ultimo decennio) per gli sbocchi della produzione vinicola mondiale, sta fissando paletti destinati a influenzare la percezione, quindi il prezzo, quindi le vendite, quindi le politiche, quindi le strategie legate al prodotto.

La Cina dunque non si limita in realtà a stabilire una “via propria” al rating del vino, finalizzata come dicono a una più facile comprensione da parte del consumatore o a un più facile adattamento della bevanda alle abitudini alimentari e gastronomiche locali, cosa che rientrerebbe quasi nella normalità o almeno nella comprensibilità, ma fa ben altro: crea un sistema di valutazione “di stato“, sostanzialmente legale e perciò in potenza vincolante, che non andrà utilizzato discrezionalmente, ma applicato come una norma. Su di esso sarà basata poi la formazione dei formatori vinicoli, quindi la creazione di una vera e propria scuola all’assaggio “nazionalistico” per enologi, funzionari, responsabili del settore. La coerenza del prodotto ai requisiti governativi diventerà di conseguenza non più un’eventualità, ma sostanzialmente una regola.

Con quattro conseguenze.

La prima, che il vino “made in China” (l’ex Celeste Impero è già il settimo produttore mondiale e dovrebbe presto scalare ulteriormente la graduatoria) nascerà, anzi dovrà per default nascere, con le caratteristiche organolettiche dettate dal protocollo qualitativo governativo, a cui i consumatori saranno con le buone o le cattive indotti ad adattare il proprio palato.

La seconda, che il vino importato in Cina dal resto del pianeta sarà certamente svantaggiato (se non bloccato in dogana o nemmeno ordinato) qualora non fosse conforme a quei parametri, condizionando così pesantemente le esportazioni, tanto da far ipotizzare nel mondo, in un futuro non lontano, una produzione di vino ad hoc per il mercato cinese.

La terza: se e quando la produzione vinicola cinese crescerà al punto da ambire a sua volta all’esportazione, il sistema già disporrà di un esercito organizzato e collaudato di sommelier, addetti commerciali, propagandisti, venditori, influencer e forse perfino giornalisti perfettamente “formati” sulla scala qualitativa cinese e pronti a “educare” il consumatore straniero.

Quarta, ultima e di natura più culturale: mutare o addirittura tentare di sovvertire, sostituendoli con i propri, canoni qualitativi sedimentati, assimilati e condivisi in tutto il mondo, significa non solo mettere in atto un disegno di conquista ambizioso, ma assolutamente rivoluzionario e bellicoso.

Se guerra sarà, cerchiamo di non perderla.