Tre ombre per le quali, se fossi milanista (absit iniuria verbis), sarei contento ma non felicissimo dell’arrivo alla corte del Berlusca del divo svedese. Pur comprendendo che è sempre meglio lui del “colpo” Papastathopoulos…

Che Ibrahimovic sia un fenomeno, non c’è dubbio: per fisico, tecnica, opportunismo e venalità. Tutte caratteristiche che si attagliano alla perfezione all’identikit del calciatore moderno, qualunque sia il colore della maglia. Nessuna meraviglia quindi che, lasciata l’Inter per il Barcellona con l’illusione di ottenere più guadagni, più gloria e più platee, un anno dopo il nostro non abbia avuto alcuna remora nell’accasarsi al Milan. Logico anche – fa parte dei giochi e delle regole del calcio spettacolarizzato di oggi – che ora lanci proclami e pure qualche inoffensiva frecciata ai nerazzurri. Che altro potrebbe e dovrebbe fare, del resto, nel giorno del suo arrivo a Milanello?
Credo però che i problemi di Ibra siano altri del rapporto con la sua ex squadra e con i suoi ex tifosi, i quali peraltro, risultati alla mano, non è nemmeno che lo abbiano mai rimpianto troppo. Problemi che già erano emersi durante la sua stagione interista e che hanno toccato il loro apice durante l’interludio blaugrana.
Con i mezzi che ha, lo svedese è una macchina da gol. Micidiale, a volte perfino irridente nel perforare difese in affanno e avversari sotto pressione. Meno efficace tuttavia nel superare difensori ben attrezzati e psicologicamente non intimiditi. La difficoltà di Zlatan nel fare gol importanti e/o durante le partite decisive era affiorata nel corso della gestione Mancini, era poi apparsa esplicita durante quella di Mourinho e quindi divenuta imbarazzante (con ciò che ne è seguito) in quella di Guardiola. Da gigante contro Brescia e Osasuna, Ibra diventa pressoché impalpabile contro Manchester United e Inter. Capocannoniere in Italia e (quasi) in Spagna, dove lo scudetto se lo contendono due o tre squadre al massimo e le altre fanno più o meno da comparsa, mezza figura in Europa. Con la maglia nerazzurra, Ibra incolpava di tutto questo i compagni, sottintendendo che l’organico non fosse alla sua altezza. Con quello del Barcellona, in mezzo a Xavi, Messi e cammin cantando, il limite caratteriale è divenuto tuttavia più esplicito e imbarazzante. Forse il Milan e i milanisti, con la loro conclamata “vocazione europea”, dovrebbero tenerne conto.
Un limite a cui se ne aggiunge un secondo, non meno grave: Ibra è un giocatore fortissimo, ma tatticamente ingombrante. Per rendere al meglio in campo, cioè, ha bisogno da un lato della massima libertà (il “portar palla” evocato ieri dallo stesso Berlusconi) e dall’altro, e di conseguenza, di una squadra che gioca per lui, gli si dedica, lo asseconda nei movimenti e nelle intemperanze caratteriali.
Era vero che l’Inter era Ibrahimovic-dipendente: lanci lunghi e pallone a lui che (spesso, non sempre) risolveva. Ma se lo svedese non era in vena, o fuori forma, o ben marcato, o imbrigliato dal punto di vista tattico? Sbocchi zero. Un problema che Mou aveva immediatamente colto, bollandolo come insolubile, e per il quale non gli parve il vero di accettare il lucroso scambio (giustamente sobillato da Moratti) con il ben più duttile Eto’o e il “resto” di 45 milioni. Insomma il doppio del prezzo di Sneijder.
Senza contare – e qui si arriva alla terza delle incognite che, se fossi milanista (ovviamente si ragiona per assurdo), contribuirebbe ad attenuare un poco i pur condivisibili peana da cui in queste ore è travolta la tifoseria rossonera – il fattore caratteriale. Ovvero quell’indole ombrosa, individualista, venale e un po’ presuntuosa che da nessuna parte ha mai reso Ibra simpatico a compagni e colleghi e che, viceversa, gli ha sempre impedito di diventare un vero leader, un trascinatore, il mastice delle squadre in cui ha giocato.
Zlatan è un fenomenale zingaro, insomma. Ora si tratta di vedere quanto Ronaldinho, Pato, Seedorf, Pirlo e compagnia siano disposti a fare i cavalli per tirare il suo carretto.