Quasi sempre editori e redazioni hanno le pretese che, giustamente, si hanno verso i professionisti. Poi però ti trattano, in ogni senso, da dilettante. E’ l’ora di finirla. O io, almeno, ho finito.

 

Dipenderà certamente dal fatto che sono nato in altri tempi, ma neppure quando ero giovane sentivo dire ai (professionalmente) anziani di allora che l’essenza e la funzione del loro lavoro erano “cambiate”. Dicevano casomai che ne erano mutati, come è fatale, i modi. Nessuno però lamentava che se ne fossero rinnegate le fondamenta.

I principi fondamentali di una professione, a maggior ragione “ordinistica” (notai, medici, avvocati, ingegneri, architetti, commercialisti e, sì, giornalisti), non cambiano infatti tanto facilmente. Il mestiere si evolve, ma rimane legato a una serie di valori di base che costituiscono i pilastri della sua stessa esistenza: la deontologia, la correttezza, la coscienziosità nel proprio operato, la consapevolezza del proprio ruolo nella società, il “giuramento” verso qualche enunciazione, il rispetto tra i membri della comunità professionale e il dovere di solidarietà tra i medesimi, tanto per citare le prime cose che mi vengono in mente.

Tutti valori che gli appartenenti a una professione sono tenuti non solo a far rispettare nei rapporti reciproci, ma anche nei confronti dei non colleghi con cui hanno via via a che fare.

In tanto consiste la cosiddetta e fin troppo evocata “professionalità“.

Ovvero quella cosa che, se se ne parla senza retorica, implica un reciproco riconoscimento e pertanto un reciproco rispetto. In altre parole, la professionalità si dà e si ricambia.
Al di fuori di questo mutuo rapporto, quindi, la professionalità non può esserci.
Essa all’atto pratico consiste nel disporre di quell’insieme di capacità, di serietà, di coscienza e di esperienza che distinguono il professionista dal dilettante o dall’improvvisatore.
Ne consegue che non può definirsi professionale un rapporto in cui qualcuno pretende la professionalità altrui senza offrire la propria e il pieno rispetto della prima.
Bene, il giochino è finito: sfido i colleghi giornalisti (autonomi, si capisce) a enumerarmi percentualmente il tasso di professionalità che ricevono da editori, redazioni e committenti a fronte del loro lavoro. A 360°: dai toni delle conversazioni ai pagamenti e ai tempi dei medesimi, dalla programmazione delle scadenze alla puntualità delle corrispondenze, dalla considerazione delle proposte ricevute alle correlate esigenze di riservatezza.
Si arriva al 20%?
Tradotto: quasi tutti pretendono da te professionalità piena, ma ti trattano da hobbista.
Con me, comunque, hanno finito.
Ora che ci penso, poi, era tutta roba di cui direttamente o indirettamente parlava la Carta di Firenze nel 2011. Sembra ieri, ma in questo mestiere è già diventata archeologia.