Quasi sempre editori e redazioni hanno le pretese che, giustamente, si hanno verso i professionisti. Poi però ti trattano, in ogni senso, da dilettante. E’ l’ora di finirla. O io, almeno, ho finito.
Dipenderà certamente dal fatto che sono nato in altri tempi, ma neppure quando ero giovane sentivo dire ai (professionalmente) anziani di allora che l’essenza e la funzione del loro lavoro erano “cambiate”. Dicevano casomai che ne erano mutati, come è fatale, i modi. Nessuno però lamentava che se ne fossero rinnegate le fondamenta.
I principi fondamentali di una professione, a maggior ragione “ordinistica” (notai, medici, avvocati, ingegneri, architetti, commercialisti e, sì, giornalisti), non cambiano infatti tanto facilmente. Il mestiere si evolve, ma rimane legato a una serie di valori di base che costituiscono i pilastri della sua stessa esistenza: la deontologia, la correttezza, la coscienziosità nel proprio operato, la consapevolezza del proprio ruolo nella società, il “giuramento” verso qualche enunciazione, il rispetto tra i membri della comunità professionale e il dovere di solidarietà tra i medesimi, tanto per citare le prime cose che mi vengono in mente.
Tutti valori che gli appartenenti a una professione sono tenuti non solo a far rispettare nei rapporti reciproci, ma anche nei confronti dei non colleghi con cui hanno via via a che fare.
In tanto consiste la cosiddetta e fin troppo evocata “professionalità“.