Spesso testate e editori si rifiutano a priori di dedicare reportage a destinazioni turistiche ritenute politicamente “inopportune”. Ma è un buon servizio all’informazione? E i giornalisti che hanno da dire?

 

Se il turismo rappresenta una delle massime industrie mondiali, quella del viaggio, nel senso di esperienza individuale verso destinazioni non banali, è una sua solida appendice.

Come in ogni settore economico di peso, turismo e viaggi hanno un loro indotto che include la stampa di settore e l’informazione non specializzata, visto che viaggiare (e quindi raccontare il viaggio) comporta anche intercettare e interfacciarsi necessariamente con fatti di cronaca e di politica internazionale.

Al di là delle questioni teoriche sulla libertà di stampa, il punto centrale mi pare però un altro.

Questo: oltre le destinazioni più ovvie e di massa, che dal punto di vista socioeconomico costituiscono un caso a sè, il mondo è pieno di luoghi estremamente interessanti da visitare, della metà dei quali tuttavia, ad essere ottimisti, nessun giornale, nè di settore nè tantomeno generalista, parla nè parlerà mai.

In altre parole ci sono paesi che, per i giornali e le rubriche di viaggio, sono a priori delle non-destinazioni. Posti di cui, salvo eccezioni rarissime e circoscritte di solito a casi speciali, non si scrive una riga.

Perchè?

Non solo, come si potrebbe pensare e a volte si vuole far credere, per ottusità o miopia delle redazioni o per mancanza di “appoggi” pubblicitari.

Spesso consapevolmente si sceglie di non trattare di certi paesi perchè ad impedirlo sono ragioni più alte, complesse o di forza maggiore, come la politica: è il caso degli stati canaglia veri o presunti, di leader contestati, di collocazione in blocchi di potere sbagliati, di politiche non allineate, di conflitti diplomatici in corso.

Le decisioni su questa sorta di censura preventiva dipendono dal direttore o più spesso dall’orientamento dei grandi editori. Editori che, essendo quasi sempre anche proprietari di quotidiani o di settimanali generalisti, quindi più o meno politicamente schierati, per ragioni di convenienza o di opportunità sono anche obbligati, nonchè inclini, a mantenere all’interno delle loro diverse pubblicazioni una coerenza di indirizzo.

Per gli editori più piccoli e meno esposti, invece, le limitazioni sono di frequente diverse, ma in termini di autocensura o risultati sono alla fine gli stessi: di certi posti non si parla perchè, ad esempio, l’inserzionista importante non lo gradirebbe. Non tanto o non solo per questioni di concorrenza, ma magari perchè quell’inserzionista fa riferimento a, o collabora con, enti statali che, in quanto statali, sono anch’essi strumenti indiretti della politica nazionale del paese che li esprime. Il quale quindi non desidera che certi paesi geopoliticamente “nemici” (con le virgolette o anche senza) abbiano presentabilità e visibilità sul mercato globale del turismo, in quando ciò costituirebbe una sorta di più generale legittimazione politica internazionale.

Ma in fondo, a pensarci bene, questo è, se non simpatico, comunque legittimo.

Come del resto un’altra ricorrente e sempre legittima ragione di autocensura è che, di norma, un editore ci va cauto a discostarsi dai conformismi, dalle opinioni di massa, dai luoghi comuni pacificamente condivisi dalla maggior parte dei lettori, nel timore di inimicarsene intere fette e quindi di trovarsi boicottato o addirittura contestato di medesimi. Quindi è molto più facile, per vivere sereni, evitare di dedicare servizi a luoghi troppo problematici.

Insomma, che piaccia o meno, così vanno le cose e occorre realisticamente accettarle. Anche perchè, se ci si mette nei panni degli altri, una certa logica esse comunque ce l’hanno.

Dal punto di vista dei giornalisti, però, brucia o dovrebbe bruciare parecchio che di certi paesi o regioni o contesti si possa riferire solo per le questioni belliche o politiche, ma non sotto il profilo della cronaca bianca, nè sotto quello del reportage, nè sotto quello della destinazione di viaggio.

Il privilegio dei giornalisti che viaggiano sarebbe infatti proprio avere la possibilità di osservare con occhio disincantato e capacità di approfondimento professionali, e quindi di saper raccontare con terzietà, le situazioni complesse che il normale viaggiatore, e ancora meno chi non viaggia, non ha quasi mai la possibilità di cogliere o di interpretare. E perciò di conoscere.

Il risultato di quest’insieme di circostanze è una sorta di censura indiretta, di vuoto informativo forzato sul quale forse, come categoria, bisognerebbe cominciare a riflettere.

Sia sotto il profilo strettamente deontologico, visto che da un lato obbligo del giornalista sarebbe di trovare le notizie, verificarle e riferirle qualunque esse siano e che, dall’altro, il viaggio costituisce comunque un’opportunità di conoscenza, e quindi una fonte di informazioni, enorme.

Sia sotto quello più ampiamente professionale, perchè fa a pugni col mio istinto giornalistico visitare luoghi e apprendere storie interessantissime, spinose, dolorose o felici che siano, sapendo però in anticipo che nessuno sarà disposto a pubblicarle, perchè ubicati i primi e avvenute le seconde nei posti sbagliati.

Sarebbe come se ci si rifiutasse di fare la telecronaca di una partita di calcio, o la recensione di un film, o la prova di un prodotto in base al luogo di svolgimento o provenienza.