Quando arrivano i bonus?” Tornano le giuste aspettative assistenziali di una categoria ridotta spesso a manovalanza ricattabile al punto di dover confidare nell’elemosina di chi doveva controllare. Come uscirne?

 

Cinicamente parlando, per i giornalisti non potrebbe esistere un’opportunità di lavoro e di indagine più ghiotta di una pandemia anche mediatica come quella che, da febbraio, stiamo vivendo: ci sarebbe da indagare, intervistare, scrivere su tutto.

Invece, in otto mesi, non solo la professione ha segnato il passo e anzi ne ha fatto qualcuno indietro, come se non fosse già in affanno, ma al primo accenno di lockdown – vero o simulato – si è riaccesa la bambola che già a marzo funse da tormentone e da sintomo del nostro male più profondo: una sostanziale miseria di portafogli e di prospettive. Soprattutto per gli autonomi e per chi lavora nella stampa specializzata.

Donde la domanda: quando arrivano i bonus, i contributi, insomma i soldi, che poi rischia di essere l’unica voce attiva del trimestre?  E così via alle ipotesi, con più o meno isterismo secondo le necessità materiali.

Non posso dare torto ai colleghi: manca poco a finire pure i buchi della cinghia e dunque al momento di poterla usare solo come laccio per appendersi (professionalmente e basta, si spera).

Il fatto però che un’intera categoria, quella a cui in teoria è affidato un ruolo centrale nel sistema sociale, cioè l’informazione, si sia trasformata senza troppe distinzioni tipologiche in una massa di questuanti, dovrebbe far pensare.

Far pensare tutti.

I colleghi cosiddetti garantiti – che poi tanto garantiti non lo sono più, visto lo stato precomatoso dell’editoria cartacea e l’economia della gratuità su cui vive quella on line – i quali, arroccati nelle loro redazioni domestiche da smart working, avranno sempre più difficoltà a trovare chi, sul campo, le notizie le cerca e magari non ha troppa voglia di farlo gratis. Col forte rischio di trovarsi presto fianco a fianco a loro ad elemosinare.

Dovrebbe far pensare le istituzioni del settore, o almeno indurle a prendere atto che la via del non ritorno è stata imboccata e che quindi, forse, è meglio scendere alla svelta o approntare scialuppe di salvataggio, non rattoppi inutili nella chiglia di una nave che affonda.

E dovrebbe indurre alla riflessione i cantori rituali dei principi costituzional-irrinunciabili della democrazia, tra cui l’informazione primeggia soprattutto quando c’è da prodursi in un vaniloquio ad usum populi. Quei cantori che nella realtà non perdono occasione per insultare i giornalisti, delegittimarli, fare conferenze stampa di sabato notte, esprimersi non tramite addetti stampa ma per bocca di “portavoce” di dubbia professionalità e ancor più dubbia deontologia, far circolare veline in bozza plurima allo scopo di confondere l’opinione pubblica salvo poi accusare la stampa di intorbidare le acque e di essere imprecisa.

Dovrebbe infine far riflettere noi, cari colleghi, su come sia stato possibile ridurci in uno stato di manovalanza  ricattabile al punto di dover confidare nelle elemosine concesse proprio da coloro che dovremmo controllare.

Nel mio piccolo, un’idea ce l’ho: sono state finemente applicate alla nostra professione le regole 3, 4, 5, 6 e 8 delle 10 del controllo sociale attraverso i mass media attribuite a Noam Chomsky. In pratica abbiamo fatto un inconsapevole autogol.

Ora, però, il punto è come uscirne.

E su questo di idee non ne ho nessuna.