Nonostante la questione sia vieta, continuano (anche per molti e malintesi distinguo) i quotidiani scontri tra giornalisti e -er di qualche tipo, con reciproche accuse che confermano la crisi di identità delle due categorie.

 

In assoluto, “visibilità” non è un termine e neppure un concetto da demonizzare, ma non c’è dubbio che tutto vada parametrato a casi, soggetti, circostanze.

Ad esempio il giornalista deve dare visibilità, dopo averle verificate, alle notizie che raccoglie, non cercare visibilità per sè. E se per caso la ottiene, dovrebbe prenderla per un fastidioso effetto collaterale o al massimo per un accidentale e sobrio motivo di compiacimento, non certo come il raggiungimento di uno scopo del suo lavoro.

Insomma, giornalismo e sovraesposizione – mediatica o perfino professionale – non vanno d’accordo.

Il giornalista è uno che osserva, pensa e indaga. Cose che oltretutto risultano molto più facili e proficue se non si hanno troppi occhi addosso. Egli si espone casomai per i temi che tratta, per le cose che scrive e per le informazioni che dà, non certo perchè è in prima fila sui media, social compresi ovviamente.

Quindi tutto il contrario di chi fa mestieri molto diversi dal nostro.

Chi è testimonial, ad esempio, ha con la visibilità un rapporto diametralmente opposto: essere notato, e quindi far notare ciò che egli reclamizza, è lo scopo della sua attività, a prescindere da ciò che egli stesso pensa del prodotto reclamizzato e, entro certi limiti, perfino dell’eticità del prodotto stesso.

Ecco perchè non capisco tutto il chiasso che tanti colleghi fanno attorno a figure che, esercitando professioni diverse dalla loro, “appaiono” in continuazione e fanno di tutto per apparire, con frequente e ampia ostentazione di chiome, abiti, posture, espressioni: mica si pretenderà che la Ferragni o gli influencer in generale vivano una vita defilata, anonima, lontana da obbiettivi e telecamere?

Lo sbaglio è invece credere che ti rubino il lavoro e accusarli di fare ciò che sì, tu giornalista non puoi fare, ma che loro possono fare benissimo.

Nel marketing, del resto, la stessa competenza in materia di ciò che si pubblicizza non è un presupposto necessario. Al massimo è un utile accessorio: essa fa parte della reclame, cioè della finzione pubblicitaria: siccome tizio fa il pilota, si presume che si intenda anche di auto e motori e siccome tizia è bellissima, si presume che sia esperta di prodotti di bellezza e che sia bella anche grazie all’uso dei medesimi. Tutto molto lineare.

Francamente, quindi, non mi sento affatto in concorrenza, nè ferito nella mia professionalità, se un non-collega, gabellandosi o meno per luminare della materia, fa spot in un settore che seguo come giornalista, cioè per lavoro.

Salvo quando – ci capisce – me lo trovo a scrivere sui giornali al posto mio o ad essere accreditato a manifestazioni dove io vado per lavorare come cronista e lui per fare pubblicità, perchè la confusione concettuale e non solo tra informazione e reclame è, questa sì, intollerabile.

Quasi quanto la confusione intellettuale tra professioni.