Sono sempre più frequenti, pur tra sentenze contrastanti, i casi di pubblicisti obbligati dai magistrati a violare l’obbligo del segreto professionale. Un altro sintomo dell’obsolescenza della legge 69/63 e non solo. Ma occhio ai distinguo e anche ai possibili furbetti.

 

Ha giustamente sollevato parecchio clamore, in Toscana e non, la vicenda (qui) del giornalista senese costretto dal pm, in quanto pubblicista e non professionista, a rivelare le proprie fonti. Per i primi, infatti, l’art 200 del codice di procedura penale non prevede la possibilità di invocare il segreto professionale che è riconosciuta invece, pur con alcune eccezioni, ai professionisti.
Resta il fatto che il collega – che conosco di persona, stimo moltissimo, so essere sotto tutti gli aspetti un eccellente cronista e al quale ho ovviamente espresso subito la mia solidarietà – dopo molte e confesse incertezze ha ceduto alle richieste e ha rivelato la provenienza delle proprie informazioni.
Il grottesco è che, in teoria, così facendo egli ha violato l’obbligo, uguale e contrario, imposto dalla legge sulla professione a tutti i giornalisti di rispettare la riservatezza delle fonti e, quindi ,sarebbe passibile di sanzione disciplinare.
Non importa qui (o forse sì, visto che si trattava di un procedimento collegato al caso della misteriosa morte dell’ex responsabile delle relazioni esterne di Mps, David Rossi) che processo fosse quello che ha coinvolto Augusto Mattioli, ma il fatto in sè, ripugnante per chi fa il nostro mestiere.
Mi paiono due, però, le questioni che la vicenda ha messo in rilievo e che forse non sono state finora adeguatamente commentate.
Da un lato quanto, anche in questo specifico effetto della dicotomia professionisti-pubblicisti, la legge professionale sia superata: al punto, davvero surreale, di esporre al rischio di comportamenti illegali e perciò sanzionabili giornalisti che a tutti gli effetti esercitano pienamente la propria professione e quindi dovrebbero non solo attenersi a, ma potersi avvalere di uno dei pilastri della medesima, ovvero il segreto professionale. Del resto sono parecchi decenni che la figura del pubblicista ha perduto gli originari connotati di occasionalità e specializzazione. Si può indagare finchè si vuole sui come e sui perchè di questa evoluzione, ma sul fatto che sia consolidata non ci piove: oggi sono migliaia i pubblicisti che fanno cronaca in tutte le sue diverse estrinsecazioni e non ha senso che siano sottoposti a norme diverse dai professionisti.
Dall’altro, e viceversa, il caso ne apre a mio parere un secondo. Molto più sottile e subdolo nella portata e nelle conseguenze.
La ratio della norma che sottrae i pubblicisti all’obbligo del segreto professionale mi pare chiara: non essendo essi considerati (giusto o sbagliato che fosse o sia) soggetti che esercitano in modo pieno la professione giornalistica, si è ritenuto che non dovessero beneficiare (e che forse neppure ne fosse ipotizzabile l’eventualità) di certi istituti tipici della professione quali, appunto, l’obbligo di rispetto del segreto professionale.
Sull’obsolescenza di questo punto si è già detto sopra.
Proviamo però a porci anche in un’altra prospettiva, molto meno usuale: se per i pubblicisti quest’esenzione non ci fosse, e finchè ci sarà la loro categoria (si spera, con l’annunciata riforma, per il minor tempo possibile, ma in Italia si sa come vanno le cose), in che misura ciò potrebbe prestarsi ad un uso malizioso dello status professionale dietro al quale nascondersi per trovare alibi legali alla reticenza?
Mi spiego più brutalmente: senza l’esenzione dal segreto professionale dei pubblicisti (i quali, ricordiamolo, sono 75mila sul totale dei 110mila giornalisti italiani e tra di loro, oltre a tanti ottimi colleghi, c’è anche un’enorme pletora di un po’ di tutto, malandrini compresi) non è che chiunque potrebbe approfittarne per prendere, con la nota e irrisoria facilità, il famoso tesserino e rendersi così almeno potenzialmente indenne dall’obbligo di rispondere alle domande di un’autorità inquirente?
In un paese di furbetti come il nostro non mi pare un’ipotesi così inverosimile.
E’ evidente che, in un simile stato di fatto – di qua pubblicisti obbligati a rivelare le fonti, di là gli stessi che non dovrebbero per principio essere obbligati in quanto giornalisti – il sistema dell’informazione e in parte quello della giustizia va in corto circuito.