Breve riflessione sull’autoinvoluzione della professione giornalistica che, sospinta purtroppo solo dagli eventi e proprio per nulla dalla categoria, sta senza volerlo tornando alle origini del 1963, in un curioso moto palingenetico.

 

La premessa, meno ovvia di quanto possa sembrare, è che giornalismo è un lavoro, il quale pertanto presuppone l’esistenza di aziende editoriali in grado di assorbirlo tramite i loro giornali.
I giornali sono, anzi erano un prodotto che si vendeva e che pertanto aveva le sue lineari economie: col ricavato di vendite e pubblicità l’editore trovava le risorse per pagare il lavoro dei giornalisti. Più giornali c’erano, maggiore era quindi la domanda di tale lavoro.
A un certo punto la fioritura del panorama cartaceo è stata tale che, oltre che del lavoro dipendente, il sistema ha cominciato ad aver bisogno del lavoro esterno, sia autonomo che libero-professionale, generando così, per effetto naturale, nuove figure di giornalisti estranee alle redazioni, ma comunque facenti parte integrante della catena.
A un certo punto, però, il tasso di natalità di questi ultimi, finito fuori controllo per cecità o sommo studio o ambedue le cose (lascio a voi giudicare) ordinistico-sindacale, è diventato superiore a quello del fabbisogno, dando vita a un eccesso di offerta e a una sovrappopolazione professionale attraverso quello che io ho battezzato il giornalistificio.
Sono cose che capitano, nei processi economici.
Quello che non dovrebbe capitare e che invece è capitato è che, nel colpevole disinteresse generale, questa deriva eccedentaria sia andata avanti per oltre un decennio senza che nessuno si ponesse il problema.
Così, quando è arrivata la crisi vera e i giornali hanno cominciato a chiudere, tagliando drasticamente e parallelamente i compensi, i primi a rimanere a casa sono stati per forza i precari e gli autonomi, andati a gonfiare le fila dei disoccupati di fatto, mentre anche le redazioni hanno cominciato ad asciugarsi e i redattori sono stati messi a fare ciò che prima facevano i collaboratori.
Il movimento di ritorno alle origini, cioè a un giornalismo fatto solo o quasi di giornalisti assunti, era insomma palesemente cominciato e avrebbe dovuto allarmare sia i governanti che gli organismi della categoria, ma purtroppo è andata diversamente: il giornalistificio infatti, nonostante i sinistri scricchiolii del sistema, è andato avanti imperterrito per altri due lustri, continuando a vomitare tesserini. E aiutato, nel frattempo, dall’insorgere altrettanto tumultuoso e incontrollato delle cosiddette “scuole di giornalismo”.

La progressiva operaizzazione del lavoro giornalistico autonomo – bassa manodopera a bassissima retribuzione utilizzata per prodotti di qualità tendenzialmente sempre peggiore e mediamente scarsa, richiedenti quindi pure una professionalità minima – giunge così al punto più acuto.
Mentre ciò accadeva, sullo scenario ha poi fatto irruzione il web.
Il quale da un lato ha definitivamente polverizzato i costi/compensi editoriali, da un altro ha reso possibile a chiunque o quasi di aprire una testata giornalistica pur in mancanza di qualsiasi capitale e di serie prospettive imprenditoriali, da un altro ancora ha azzerato i compensi unitari delle prestazioni degli addetti ai lavori. Ma ha pure offerto a un sacco di gente che mai avrebbe potuto, saputo, immaginato di fare il giornalista di procurarsi con facilità la qualifica e di operare come tale, sebbene in un regime di sostanziale volontariato o hobbismo.
E con questo siamo giunti al culmine?
Macchè, manca ancora l’ultimo stadio.
Essendo la deriva sfuggita – per lassismo, mancanza di controllo e perdita del timone – definitivamente di mano, ormai per l’esercizio della professione la stessa qualifica è infatti diventata un optional: con la scusa che “siamo tutti giornalisti” e che comunque nessuno verifica o tantomeno sanziona che il lavoro giornalistico venga svolto da giornalisti e non abusivamente, la stragrande maggioranza del prodotto editoriale viene oggi realizzato da un numero sempre più ridotto di professionisti contrattualizzati, che stanno nelle redazioni, e da un numero sempre più alto, direi oceanico, di dilettanti (di fatto o di reddito) che campano o sono costretti a campare d’altro, ma a cui viene affidata gran parte della sorte dell’informazione.
Se ci si pensa bene, siamo tornati più o meno alla situazione del 1963, quella da cui presero vita la legge professionale e la scansione netta tra giornalisti professionisti, ovvero assunti, e giornalisti pubblicisti, ovvero giornalisti occasionali che vivevano di altri introiti.
La differenza è che, prima, i secondi erano un’eccezione e oggi sono una tracimante regola. E che perfino tale regola è diventata superflua, inghiottita dalla sindrome del giornalismo di fatto e privo di obblighi deontologici nel quale sguazziamo.
La chiamano democrazia, mentre a me pare solo una china pericolosa.