Mentre infuriano le polemiche sulle presunte truffe dell’olio, a cronache approssimative i media affiancano insopportabili e spesso surreali “consigli”. Mentre le massaie si indignano ma poi comprano e apprezzano palesi ciofeche.

 

Per favore, basta: non se ne può più.
Come in tanti altri casi, la stupidità umana mi costringe a parteggiare per Vanna Marchi anzichè per i babbei turlupinati dal mago Dos Santos.
Dove la parte della Marchi e del mago brasiliano la fanno le aziende che commercializzano, extravergine o meno che sia, olii schifosi già al palato. Così schifosi che chiunque dovrebbe subito percepirli come tali e rifiutarsi di ingerirli o di condirci l’insalata, anche a prescindere dal prezzo. E quella dei babbei turlupinati i milioni di consumatori che, pronti a parole a reclamare la qualità, pontificare sui cibi slow, vergare superciliose critiche su Tripadvisor, pretendere bollini e certificati poi, senza batter ciglio, al supermercato comprano e ricomprano bocce d’olio a tre euro senza accorgersi (o accettando, il che è lo stesso se non peggio) che il contenuto è organoletticamente pessimo.
Scusate, ma allora di che stiamo parlando?
Per carità, massima condanna a chi imbroglia la gente mettendo in commercio come extravergine olio che legalmente e chimicamente non è tale (occhio però, la truffa è una questione di qualità, non di sanità del prodotto), ma davvero vogliamo far finta di credere che tutto l’extravergine formalmente ineccepibile che si trova sugli scaffali è invece “buono“? Insomma che ha un buon sapore, un profumo gradevole e senza difetti, la tipicità, la fragranza indispensabili in un prodotto così fondamentale, tradizionale, quotidiano della nostra dieta?
Ma li avete mai assaggiati questi “ori verdi” da due soldi (e spesso anche non) che si trovano in giro?
Eppure vanno a ruba.
Mentre gli olivicoltori, quelli che l’olio lo fanno buono con le proprie olive sostenendo costi di produzione altissimi, per liberarsene e far cassa devono svenderlo sottocosto ai frantoi e all’industria.
Qualcuno dirà: se ci perdono, i produttori dovrebbero smettere di produrlo. Cosa che peraltro non è affatto esclusa e che anzi sta già verificandosi. Ma la circostanza non risolverà comunque il problema del pessimo condimento ammannito dal mercato ai consumatori e della loro beata, anzi beota propensione a gustarsi delle ciofeche camuffate da olio.
Insomma, l’olio è più che un semplice alimento. Più che un ingrediente. E’ qualcosa che ha vita propria, che serve ad esaltare il gusto di cibi e pietanze, si assaggia, si annusa. Extravergine o meno che sia, è inconcepibile che la sua almeno media qualità organolettica non venga percepita dal naso e dalla bocca di chi lo utilizza. Non si parla di finezze, ma di percezione grossolana.
Eppure accade.
Milioni di consumatori non si accorgono di mettere in tavola porcherie. Esattamente come non si accorgono di indossare abiti che stanno loro malissimo o acconciature che li rendono ridicoli, solo perchè hanno un pessimo gusto o il marketing li ha persuasi di essere eleganti.
I media, infatti, ci mettono del loro. Affiancando alle cronache di indagini e sequestri degli oliacci gli immancabili “consigli” destinati alle massaie più sprovvedute. E allora si salvi davvero chi può.
Il risultato è di aggiungere ignoranza teorica alla già evidente incapacità pratica di riconoscere un olio buono da uno cattivo.
Memorabile, tra le centinaia, quello letto di recente sul colore.
Detto per inciso, come chiunque mastichi un po’ dell’argomento sa benissimo, da un lato il colore dell’olio è la cosa più facile da manipolare (basta un goccio di clorofilla a trasformare in verde smeraldo un liquido bianco e trasparente), dall’altro il fattore cromatico è quello che più influenza il giudizio anche dell’assaggiatore esperto: non a caso le degustazioni professionali sono fatte utilizzando bicchierini scuri che lo nascondono.
Ciononostante, giorni fa un diffusissimo quotidiano ha dottamente spiegato, peraltro con tale vaghezza da rendere il suggerimento del tutto inapplicabile in pratica, che l’extravergine dovrebbe avere una tonalità di “verde intenso” (cioè?), mentre nell’altro (quale altro?) il verde sarebbe “più tenue” (ovvero)?
Poveri noi. E vi risparmio i dettagli su odori e sapori.
Mi viene in mente quella barzelletta da caserma in cui una tizia dai facili costumi chiede a dei baldi giovanotti: “Sapete che differenza c’è tra me e i soldatini?“. Loro, in coro: “No“. E lei di rimando: “Ecco, allora continuate a giocare con i soldatini“.