La spiegazione è bellissima: sono quelli che “vivono ai confini tra selvatico e coltivato”. Più o meno come me, insomma. Per dirla con Latouche, “decrescono”. Ma soprattutto hanno un ideale di sobrietà dell’esistenza che, a prescindere dagli orpelli dell’esteriorità, trovo quantomai condivisibile.

Ci sono cose nella vita che uno scopre tardi, all’improvviso. E con un certo turbamento. Come chi apprende soltanto da grande di essere stato adottato dai suoi genitori. O di avere strane e antiche patologie, però del tutto asintomatiche.
Ecco: io oggi, dopo oltre vent’anni, ho scoperto di essere un bioniere.
Sì, bioniere, con la “b”. Non solo, ma di esserlo stato così precocemente (e inconsapevolmente, è ovvio) da essere considerabile un pioniere dei bionieri, come gli americani che inaugurarono l’avventura già nel 1990.
Bioniere è il neologismo con cui, dice il corriere.it (qui), si indica chi “vive ai confini tra selvatico e coltivato”, cioè ha scelto “di fuggire dalle città e vivere con ciò che la terra offre o, più semplicemente, di riappropriarsi di spazi abbandonati e dedicarsi all’agricoltura biologica”. Ma siccome, pur essendo sognatori e vivendo talvolta da eremiti, continua il quotidiano on line, costoro hanno un cervello, non stanno su Marte e sanno usare la tecnologia, anche in Italia hanno creato il loro rural network (qui) per aprire nel web una “radura collettiva dove incrociare e scambiare saperi e sapori, utopie, progetti e memorie”.
Gente un po’ strana e un po’ estrema forse. Ma che fa esperienze che nella sostanza e in gran parte conosco bene. E condivido. Vive senza riscaldamento, recupera case abbandonate o fatiscenti, tende istintivamente a riutilizzare tutto e a non sprecare nulla, conosce l’arte del riciclaggio, sa cogliere i frutti della natura, campa insomma con una parsimonia naturale che non ha nulla a che fare con la tirchieria, ma casomai con il minimo impatto: ambientale, economico, sociale.
Fatalmente il mondo civilizzato (evito il “presunto tale”, ma lo sottintendo) tende ad ironizzare su certi stili di vita. Comprensibile, anche perché li abbina a un’esteriorità stereotipata che invece, spesso, è il frutto del pregiudizio e della scarsa frequentazione. Immagina cioè figure pittoresche, tra l’elfo e il contadino ottocentesco, fisionomie sospese tra hippy e gnomi, sottane a fiori, costumi da cartolina, sguardi sognanti, rughe profonde e unghie sporche. Poi vai a indagare scopri che, talvolta almeno, di tutto questo non c’è traccia. E che tanti di questi, anche se magari non tutti, sanno, anzi vogliono rinunciare volentieri ai simboli un po’ esibizionistici della loro alterità e si presentano con modi normali, abiti normali, vite normali. Permeate però di quella sobrietà che caratterizza l’anima dei bionieri.
Ecco, insomma, un quarto di secolo fa mi dissero che ero un neorurale e oggi ho scoperto di essere invece un bioniere. Adesso però voglio capire se anche loro mi vedono tale.
Aggiornamenti a breve.