Bonatti se n’è andato ieri, a 81 anni. E ha portato con sè il segreto di quella notte sul K2 che gli ha avvelenato la vita per mezzo secolo. Per come l’ho conosciuto, non mai avuto dubbi su chi dicesse la verità. Ma sarebbe ingiusto ricordarlo solo per quell’epica impresa. Vale atque vale.

Dieci anni fa, tondi tondi, ho avuto l’onore di conoscere Walter Bonatti, di cenare con lui, di chiacchierare di tante cose. Eravamo alla Bit, la borsa del turismo di Milano, e gli assegnammo il premio Neos (di cui all’epoca ero vicepresidente) per il 2001. Parlammo di tutto, perfino di agricoltura. E grazie, all’agricoltura, per un po’ ebbi l’occasione per risentirlo spesso. Figuriamoci, voleva consigli da me per gestire l’oliveto della proprietà di sua moglie, l’attrice Rossana Podestà, in Toscana. E così si discettava, al telefono e di persona, di cultivar e di Patagonia, di Monte Bianco e di frantoi, di Ande e di extravergine. Dei suoi leggendari reportage per Epoca.
Avventure, aneddoti, esplorazioni, riflessioni, dettagli. Tutto con semplicità disarmante, con grande passione, con sottile nostalgia.
Di una sola cosa non parlammo mai, nè io ne ebbi la tentazione di farlo, nè lui mostrò di desiderarlo: di quella notte del 1954 sul K2, a -50°, senza tenda nè sacco a pelo. Un’impresa leggendaria trasformatasi in incubo e che, come tale, ha riempito di fiele i suoi successivi cinquant’anni, tutti spesi a difendersi, a riabilitarsi, a scrivere libri e ricostruzioni. Senza mai riconciliarsi con chi l’aveva tradito e l’aveva calunniato: “Quello che riportai dal K2 – scrisse su “Le mie montagne” – fu soprattutto un grosso fardello di esperienze personali negative, direi fin troppo crude per i miei giovani anni“.
Era un personaggio straordinario, Walter Bonatti. Stupefacente la sua sobrietà, accompagnata dalla perfetta consapevolezza delle difficoltà che affrontava, ma sempre senza retorica, senza autoreferenzialità. Ricordava sempre gli ostacoli tremendi legati ad attrezzature e tecnologie che oggi farebbero sorridere. E ne sorrideva pure lui. Le pellicole fotografiche da salvare, le provviste da seppellire per alleggerirsi e da ritrovare al ritorno.
Pareva un monumento vivente, Walter. Anzi, lo era.
Ora che è morto, il monumento resta. E la nostra gratitudine pure.
Sul K2 si è spenta una luce.