Il day after è cominciato già ieri, quando l’aria di smobilitazione si è fatta palese. Il peggio però inizia ora: come può un giornalista dar senso alla propria presenza a un evento di cui gran parte degli espositori lo considera, se va bene, un orpello inutile?

Il gioco di parole non è mio, ma era troppo carino per non essere riutilizzato.
Il senso è il seguente: per quanto male (spesso anche un po’ esagerando) se ne possa dire, il peggio del Vinitaly è il dopo Vinitaly. Cioè il Finitaly, quel momento in cui coi piedi gonfi, la testa dolente, la borsa piena di carte e pennette prevalentemente inutili e la casella di posta elettronica intasata da inviti che continuano ad arrivare anche quando la fiera chiude i battenti, ti chiedi: e adesso?
Come qualcuno mi ha fatto acutamente notare, il bello di questa fiera è che è sempre uguale a se stessa, nei pregi e nei difetti. Non starò a elencare nè gli uni nè altri, che sono arcinoti.
I ragionamenti di fondo che invece mi sento di fare al termine della mia “…esima” partecipazione (preferisco non pensare a quante, ma temo di saperlo) sono, giornalisticamente parlando, due.
Il primo afferisce alle notizie che si raccolgono tra i padiglioni. Nell’epoca del tempo reale e dei “punti” fatti ogni giorno, anzi ogni minuto, su qualsiasi argomento, per i cronisti un appuntamento del genere è ancora dotato di un senso?
Direi di no. Il Vinitaly non è più il quotidiano con le notizie fresche, ma casomai il settimanale per gli approfondimenti e le discussioni. In fiera ci si incontra e ci si scambiano idee, opinioni, considerazioni. Tutte cose utilissime. E che, a mio modesto parere, se fatte de visu hanno tutto un altro significato che se fatte su social, forum e portali vari. C’è la stessa differenza tra un vino assaggiato e un vino raccontato. Questo è l’aspetto positivo del Finitaly: torni a casa e rimugini, metabolizzi, rifletti dopo aver arricchito di spigolature le tue conoscenze.
Il secondo, meno consolante ragionamento afferisce invece all’ormai siglato divorzio tra informazione professionale e produttori vinicoli.
Un’incompatibilità da sempre strisciante, sia chiaro. Ma fino a poco tempo fa tenuta almeno un po’ a freno da ragioni di necessità e di contingenza.
Ora invece è divenuta conclamata. Lo sfasamento è evidente: i giornalisti (mi riferisco a quelli seri, non ai venditori di reclame camuffati) parlano coi produttori per avere notizie, i produttori parlano coi giornalisti per vendere vino. Secondo loro cioè, o almeno secondo una grande maggioranza di loro, la funzione dei media, o meglio il motivo per il quale i media sono interessanti, non è fare informazione, ma aiutare loro a fare affari. In sostanza, fungere da leva per convincere il consumatore a comprare questo o quel prodotto. E lo dicono espressamente.
Cosa del tutto comprensibile e niente affatto sorprendente, intendiamoci.
Solo che l’equilibrio di prima si è rotto e indietro non si ritorna. Fino a ieri la stampa costituiva per il mondo vinicolo un interlocutore pressochè unico, al quale rivolgersi brandendo ora la carota delle notizie e ora il bastone della pubblicità. Poi però il meccanismo è rimasto sepolto sotto lo tsunami della rete e della “comunicazione” trasversale ad essa affidata. E buonanotte al secchio.
Il discorso, ripeto, se visto da un certo punto di vista fila alla grande: nella misura in cui i giornalisti non mi “servono” più, perchè dovrei coltivare i rapporti con loro? Non fa una piega.
Stando così le cose e ribaltando le prospettive, resta però da capire cosa ci vanno a fare i giornalisti al Vinitaly, visto che le notizie li precedono e ben che vada la loro presenza è quella di testimonial low cost. Al netto delle centinaia di superflue veline autocelebrative che ricevono ogni giorno, intendo.
Ecco, in questo senso dicevo che il Finitaly è peggio del Vinitaly.