La Toscana, dai contadini alle istituzioni, si interroga di nuovo sul problema della proliferazione degli ungulati, che sembra insolubile. E forse lo è diventato davvero, salvo prendere consapevolezza che, da rurale, la questione è ormai diventata sociale (nonchè politica).

 

Un paio di annetti fa, quando il dibattito pareva già al calor bianco, pubblicai qui un post che fece un certo rumore, provando a dire pane al pane e vino al vino su come stavano davvero le cose. Ossia così: che da decenni la politica, ovviamente in cambio di voti, ha appaltato in esclusiva al mondo venatorio il controllo della fauna selvatica e ora, anche volendo, tornare indietro è difficile, sebbene sia evidente tanto che le alternative non mancherebbero, quanto che affidare ai cacciatori l’eliminazione dello strumento del proprio divertimento è una palese e inefficace contraddizione.
Ventiquattro mesi dopo, nonostante molta buona volontà messa in campo dalla Regione e dall’assessore Marco Remaschi (inclusa una legge ad hoc), nonchè ulteriori e variegate proteste, tutto è rimasto pressochè uguale ed anzi si è aggravato. Gli animali divorano i raccolti, invadono i centri abitati, provocano incidenti stradali.
Due numeri in croce: la Toscana ha terreno boscato, tutto strettamente compenetrato con le colture agricole, per circa 1.100.000 ha, poco più del famoso parco americano di Yellowstone, che però è totalmente spopolato e non coltivato, ma le due aree sopportano lo stesso “carico” faunistico. Nel 1948 la superficie forestale regionale era di circa 800mila ettari, segno che oltre 300mila ha ettari di bosco derivano dal progressivo e perdurante abbandono delle campagne. Si calcola che in Toscana, con massima concentrazione nelle aree di Siena e Firenze, vivano 200.000 caprioli, ovvero un quarto del totale nazionale, e circa 400mila cinghiali, pari a 17 capi per kmq, cioè oltre il quadruplo della media italiana. I danni da ungulati alle colture ufficialmente liquidati dalla Regione Toscana nel 2017 (e quindi di gran lunga inferiori al danno effettivo) sono stati di 4 milioni di euro, quasi il doppio dei 2,6 liquidati nel 2010. Dei 4 milioni citati, un terzo è stato necessario per coprire i danni constatati nel solo perimetro delle due atc senesi. E mi fermo qui, convinto che tanto basti a rendere l’idea della situazione.

Situazione di cui tutti ormai sono consapevoli, solo che soluzioni all’orizzonte non se ne vedono.

Solo una cosa è certa: la caccia non basta e quindi affidarsi alle “squadre” per contenere la fauna è inutile.

Ne deriva uno stato di tensione permanente in cui lo scambio di accuse è fittissimo: agricoltori contro cacciatori, cacciatori contro animalisti, animalisti contro agricoltori, cacciatori organizzati contro cacciatori singoli, atc contro regione, regione contro organizzazioni agricole, agricoltori contro regione e atc, regione contro ambientalisti. Un tutti contro tutti di parole da cui l’unico che esce quasi indisturbato vincitore è il nemico comune: ovvero i cinghiali, i caprioli, i cervi e i daini. La loro sovrappopolazione si è trasformata anche in un’indiretta sovrappopolazione dei parassiti, a cominciare dalle pericolose zecche, che quegli animali si portano addosso e ora riempiono boschi e radure. E quindi la faccenda rischia di sconfinare nel sanitario.

A mettere un po’ d’ordine in questo pandemonio ci ha provato per ultimo, giorni fa, il Biodistretto del Chianti, organizzazione che in chiave agroambientalista riunisce agricoltori, enti locali e società civile, con una tavola rotonda dal sottotitolo quantomai programmatico: “Alla ricerca dell’equilibrio perduto“. Come a dire: troviamo insieme delle risposte che siano al tempo stesso anche una garanzia di equilibrata gestione del problema e degli interessi in campo.

L’incontro è stato utile, ma non risolutivo.

Ai vari muro contro muro di cui sopra si sono aggiunte informazioni che hanno semmai contribuito, qualora ce ne fosse stato bisogno, a far capire quanto il nodo sia complesso e quanto i vari fattori che lo compongono siano tra loro così strettamente interdipendenti da creare un groviglio oggettivamente inestricabile, se non ricorrendo ai proverbiali provvedimenti drastici destinati però, per loro natura, a lasciare sul campo morti e feriti.

A delineare scenari foschi ha contribuito ad esempio lo zoologo Federico Morimando, che è giustamente partito da lontano: non solo la fitta mescolanza, in Toscana, di aree boscate e aree rurali, costituisce una “miscela esplosiva” in termini di creazione di un ambiente idoneo alla moltiplicazione della fauna selvatica, ma questa non è che l’onda lunga dei perniciosi lanci di selvaggina fatta dalle associazioni venatorie nei primi anni ’60, in coincidenza proprio con la fase di spopolamento delle campagne a seguito della fine della mezzadria. Uno spopolamento che ha favorito moltissimo il naturale sopravvento preso dagli animali. A ciò si sono aggiunti gli effetti del surriscaldamento climatico: nella temperata collina toscana la fauna sta benone, ha una mortalità più bassa e cibo più abbondante: perchè non vi si dovrebbe insediare? In soli 60 anni le querce hanno anticipato di un mese la germogliazione, offrendo più presto teneri bocconi agli ungulati. I quali poi, tutt’altro che scemi, sanno scegliere benissimo il proprio cibo ed hanno capito presto che una bell’uva matura è più buona di altri insipidi nutrimenti.

Basta così? Macchè.

L’enorme biomassa animale (nel senese è il triplo del normale) che staziona tra vigne e oliveti è anche un irresistibile motivo di attrazione per i predatori, che quindi ora si spingono a caccia ove prima mai si sarebbero spinti. “Nei 50mila ettari del Chianti senese – ha esemplificato Morimando – stazionano oggi almeno sette branchi riproduttivi di lupi che, attirati dalla gran quantità di ungulati, finiscono poi per attaccare le greggi“, coi risultati che conosciamo. In Toscana la presenza del lupo è sempre stata abituale, anche se poco visibile, ha detto, ma oggi è aumentata per i motivi appena detti e aggravata da un forte fenomeno di ibridazione con cani inselvatichiti. In sintesi, i campi abbandonati hanno attirato la fauna, che ha trovato un habitat favorevole e duraturo nelle vicine aree coltivate, dove essa si è insediata divenendo naturale preda dei lupi, i quali poi finiscono per trovare più facili bersagli nelle pecore.

C’è poi un altro punto, spesso sottovalutato. Gli animali non stanno fermi, si spostano. Si spostano dove c’è più cibo, meno caccia, meno pericoli. Il 10% della Toscana, pari a circa 230mila ettari (e a 100mila cinghiali), è territorio protetto, all’interno del quale la caccia è quindi proibita. Aree aperte e aree chiuse sono come vasi comunicanti all’interno dei quali il flusso della fauna corre. Ecco perchè la caccia da sola, che oltretutto è sottoposta a rigide regolamentazioni burocratiche e di calendario, non può essere la soluzione del problema. Il paradosso è che, al massimo, la caccia “scaccia” da una zona all’altra e da una vigna all’altra la massa degli animali selvatici.

Ma c’è un altro ma. Un ma che forse sta al cuore della questione e investe un aspetto giuridico fondamentale della stessa. L’ha sollevato Duccio Corsini, viticoltore del Chianti Classico. “Io sono cacciatore“, ha detto. “Ho una regolare licenza e un regolare porto d’armi. Ma sono anche viticoltore. Perchè devo delegare ad altri cacciatori l’abbattimento degli ungulati all’interno della mia proprietà e altrimenti difenderla mettendo costosi e inestetici reticolati, anzichè sparando col mio fucile?” Già: perchè l’agricoltore non può fare abbattimenti sui propri terreni (e, se non può, non glielo si consente)?

Gli ha fatto eco Franco Ferroni del WWF Italia, che ha lanciato altri sassi nello stagno: perchè si ostacola in ogni modo una politica delle catture che potrebbe essere complementare, se non alternativa, agli abbattimenti effettuati dai cacciatori, quando queste hanno dato egregi risultati di contenimento della fauna proprio nei contesti più difficili, come le aree protette?

Da parte sua Vito Mazzarone, funzionario della Regione intervenuto al posto dell’assessore Remaschi, non si è nascosto, ammettendo che in Toscana la situazione degli ungulati è difficile, nonostante gli sforzi compiuti dalla pubblica amministrazione. Ma il costante calo del numero dei cacciatori in attività, la posizione conservativa dell’Ispra (l’ente consultivo ministeriale che rilascia pareri obbligatori ma non vincolanti sugli abbattimenti), il generale trend di crescita europeo della fauna selvatica, il riassestamento del sistema e delle competenze regionali dopo la riforma Del Rio e la sovrapposizione di norme e vincoli hanno certamente limitato l’efficacia della cosiddetta “legge obbiettivo” (LR 10/2016) lanciata ai primi del 2017 per porre un argine alle scorribande di cinghiali e caprioli. Eppure, ha rilanciato, se sono calati gli abbattimenti non sarà perchè è calato anche il numero degli animali presenti sul territorio?

Difficile rispondere, perchè il problema concreto è quello dell’entità dei danni che questi animali procurano e non tanto il numero in sè di ungulati presenti.

E così via a chiamare in causa i sindaci affinchè facciano maggiore pressione politica e autorizzino con più facilità la costruzione delle ormai indispensabili recinzioni (anche se a Radda segnalano la presenza di cervi “olimpionici” capaci di saltare reticolati di oltre due metri), le atc, le squadre dei “cinghialai” che a loro comodo e tornaconto gestiscono praticamente in esclusiva gli abbattimenti, in un crescendo di rabbia, rivendicazioni e a volte (per fortuna) anche di folklore.

Pochi invece gli accenni al pur serio nodo della sicurezza stradale, sebbene messa gravemente in pericolo.

Qualcuno in più a quello della sicurezza alimentare visto che, sebbene la legge regionale preveda l’apertura di vari “centri di sosta” (dei 48 necessari ne sono però stati aperti appena 11) per il conferimento e la verifica delle carni della selvaggina abbattuta, solo il 40% del totale attualmente vi transita, mentre il resto rimane in mano ai cacciatori e a un mercato parallelo che sfugge a qualsiasi controllo (anche fiscale). Solo una cosa è certa e contestata: non un centesimo derivante dalla vendita delle carni va nelle tasche degli agricoltori.

Così, quando, in un’atmosfera sospesa tra smarrimento, risentimento e rassegnazione, la tavola rotonda stava per chiudersi, ha chiesto la parola un anziano signore, che si è presentato: “Sono Pierluigi Rossi Ferrini, ho 88 anni, sono medico e pure cacciatore. A parte il fatto che in casa mia vorrei avere il piacere di poter tirare a qualche capriolo, segnalo a tutti una cosa. C’è un rapporto lineare tra la presenza di ungulati e di zecche. Le zecche portano malattie molto gravi, come la richeziosi. Che è rara, ma con questo andazzo potrebbe diventare una malattia del futuro. Pensiamoci“.

Ecco, chissà se la leva sanitaria, oltre all’automobilistica, convincerà le istituzioni che quello della proliferazione della fauna selvatica in Toscana non è più un problema rurale, ma sociale, e che come tale va affrontato, sottraendolo una volta per tutte ai cinghialai in conflitto di interesse.